C'è da fare, si fa

Sonia - Studio e Formazione

Il cerchio, o quadrato, o rosa dei venti, si chiude con Sonia Boschi. Eccomi infatti adulto, alla sera, in uno dei luoghi che più la mia età adulta e le sue ricerche ha segnato, la Biblioteca delle Oblate. Una biblioteca che per certi versi, e solo per il caso e la fortuna di abitarci vicino, è il mio Giovanisì, ovvero una delle risorse che la “cosa pubblica” mi ha dato, invece di prendermi. Mentre la raggiungo, per la millesima volta in vita, non sono magari ancora rientrato nel me stesso di oggi, in quello che procede verso i sette lustri d’età – e finalmente “formato”, si spera –, ma la crisalide non è che quella di qualche anno prima. Supero senza indugi l’accesso, i suoi lunghi neon arancio, entro, giro, passo l’arco, arrivo al chiostro noto. Riconosco alla vista e al tatto le forme delle colonne, delle scale, delle pietre; le mie colonne, le mie scale, le mie pietre, dove mi siedo, protetto dall’ombra, in attesa.

L’ingegner Sonia Boschi mi viene consegnata automatica dalle porte cromate, zigrinate, dell’ascensore, mi si presenta con il “bip” del medesimo e l’apparire dello “0” rosso sul display. Sonia Boschi, che avanza e mi riconosce con un cenno (che sia arrivata a documentarsi? Ma no, è solo che è tardi, e non c’è quasi più nessuno nel chiostro) e con la quale mi sposto in caffetteria, è una unità di pragmatismo, è pragmatismo personificato e abbigliato: ha gli scatti sottili del metronomo o della meccanica di orologio, e se gli occhiali rastremati le danno un tocco retró, alla Mad Men, tutto il resto, in lei, è serietà, ordine, efficienza ed esprit de géométrie: abito pied-de-poule (incastri, montaggi), pochi fronzoli (e quelli che ci sono, in acciaio), stivaletti in gomma (quasi a sancire la possibilità di un intervento immediato, dovesse verificarsi un dissesto in situ – poiché questa, come avrò a scoprire poco più tardi, è la sua competenza), uno sguardo fermo, che potrebbe apparire addirittura disilluso, ma che in realtà è quello di chi già guarda il mondo da una determinata, e risoluta, scelta di prospettiva.

Perché analizzare e rimettere in sesto ciò che non va è la sua missione, lo capisco subito: da come lo dice, certo, ma anche da come parla in generale, da come entra in ascensore e da come incede nella saletta della caffetteria, da come non si prende il tempo del riscaldamento, della confidenza; neanche ordina un tè, un aperitivo, niente, inutile che insista, non lo vuoi un caffè una capiroska un’acqua? Niente. Siamo adulti. Devo ricordarmene. Tutto è già sotto il suo controllo, non mostra bisogni al di fuori di quanto ha stabilito, e sa già cosa deve fare: raccontare, in modo esaustivo, e infatti va subito al punto, lei, laureata in Ingegneria Civile e oggi impegnata nel secondo anno del suo dottorato di ricerca sulla vulnerabilità sismica dei centri storici, entra immediatamente, stivali di gomma ai piedi e schiena dritta, nel vivo dell’esperienza. Ma non la si creda fredda, solo controllata: ha infatti un metro anche per le emozioni, e lo dimostra. Dice di considerarsi fortunata – in virtù della borsa regionale ha del resto potuto pagarsi gli studi, cosa che altrimenti l’università non avrebbe potuto fare, corredandoli anche di un soggiorno di un mese e mezzo a Braunschweig, in Bassa Sassonia (come non vederla bene in Germania, l’ingegner Sonia Boschi?), dove ha potuto approfittare di un laboratorio sperimentale per lavorare sulla distruzione controllata di strutture – e si dichiara felice, ma è anche evidente la sua consapevolezza di quanto, in fin dei conti, tutto questo sia giusto. Che lei questo sa fare, e dunque vuole fare, e dunque deve fare. È quadrata, Sonia Boschi da Poppi di anni ventisette, colloca o sottolinea le parole con gesti brevi, tagliati, ha una memoria che assomiglia a uno scanner quando ripercorre la sua tesi sulla riabilitazione strutturale e poi il suo tirocinio in Abruzzo, nelle zone colpite dal sisma del 2009.

È in particolare nella cittadina di Castelnuovo, quella che i giornali chiamavano “il paese dimenticato”, che la sua squadra è andata ad agire, un centro storico (di 70 aggregati e 289 unità strutturali, enumera a colpo certo) duramente provato (90% di edifici con danni gravi o gravissimi, tutti i 200 abitanti evacuati, e anche cinque decessi), nel quale il suo gruppo si è dovuto muovere secondo una linea quasi di restauro, ogni giorno avanti e indietro, dall’asilo dove avevano alloggio fino alla “zona rossa”, raccogliendo un database anche di utilità generale per indagare la vulnerabilità di altre strutture.

E però, in tanto pragmatismo, anche affezionandosi molto, mi rivela: tant’è che c’è tornata, più e più volte, forse anche più spesso di quanto sarebbe stato necessario, e la sua gratitudine al progetto Giovanisì, dice, «va anche e soprattutto vista alla luce del fatto che grazie al dottorato sono potuta tornare ancora là». Senso di missione, ma senza concessioni all’autocelebrazione. C’è da fare, si fa: questo dicono la sua mimica e il suo sguardo. Mi racconta di come i primi soggiorni riguardassero lo svolgimento del tirocinio obbligatorio per la conclusione della Laurea Magistrale (e uno dei settanta aggregati ha costituito l’argomento specifico della sua tesi), e di come ci sia tornata anche dopo, sia per affrontare il Piano di Ricostruzione assieme all’Università, sia perché l’argomento riguarda, oggi, il tema della sua Tesi di Dottorato. Col cuore, ma prima sempre con la testa.

Pensa al “post-doc”, dice poi; punta all’insegnamento. In ambito sismico? «Certamente, ci si prova». Questo sono, pare dire.

«È tutto?», mi chiede mentre vede che faccio per chiudere il quaderno. È tutto. Si alza, il metronomo. Sono decostruito e ricostruito. Ristrutturato? Trovare, inventarmi una nuova identità per raccontare queste storie, era questo il punto con cui ero uscito di casa la prima volta, qualche giorno prima, per raggiungere la prima “beneficiaria”: per partire, da una stazione dei treni. Scendo dalle Oblate a fianco a lei, per andarmene a casa; Sonia cammina e guarda dritta, ci separiamo, lei che già punta il prossimo obiettivo. Scende la notte, ma è l’oggi.

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