La Linea Murina

Laura - Studio e Formazione

L’aquila è capace di fare il miglior nido che esista in natura.
Impiega settimane per terminarlo: foglie secche, ramoscelli, piumaggio.
Quando nasce il piccolo è una madre perfetta, ma dopo sei mesi inizia a rompere il nido.
Ogni giorno, ne stacca un pezzetto.
Fin quando il piccolo non ha più riparo.
Se non vuole morire di freddo deve imparare a volare.
Quando spicca il volo, la madre lo affianca e volano l’uno accanto all’altra.
I mesi successivi, gli insegna a volare, poi deve lasciare il nido.
Deve imparare a vivere solo.
(Laura Pietrovito)

Una volta varcata la linea murina ci si trova di fronte a un paesaggio stellare, di frutteti e sentieri impenetrabili, di vortici di polvere e pendii dissodati dalla furia dei purosangue, di muri di pruni, di mandorli, olivi secolari ed aranci che s’inerpicano sulle alture sino a dileguarsi nel bianco abbacinante della Sierra Nevada. Ma prima di superarla bisogna farne di tragitto, e di fatica.

Laura è stata in Spagna poco più di quattro mesi. Ha vinto una borsa Pegaso finanziata dalla Regione Toscana, ha fatto le valigie ed è partita per Granada. I primi giorni è stata in ostello. Era Aprile. Le strade non erano deserte. Ma l’ostello sì. Laura aveva una stanza tutta per sé. Per sé e per il suo figlioccio: uno zaino di quasi quaranta chili, ricolmo di ricambi, libri, macchine fotografiche, uno zaino vorace che non ha cessato un attimo di crescere e che al termine del soggiorno spagnolo ha trasceso la condizione di bagaglio per assumere le dimensioni di un uomo adulto in buona salute. Ed è diventato colossale. Una colonna ambulante, stracolma di tutti i ricordi che Laura si è portata dietro dall’Andalusia.

«Granada è bella… Una chicca… piena di stradine acciottolate… di case arabe, una chicchina…», mi dice davanti a un piatto di cime di rapa. Non siamo sul Darro, non siamo nel quartiere delle teiere, e non stiamo tapeando. Siamo in Santa Croce, a Firenze, abbiamo due bicchieri di rosso di fronte e il lampredotto ci scruta con le sue mille ghigne grigiastre dal piatto.

«Il Dipartimento non aveva gli strumenti necessari per lavorare in vitro ed è stato necessario rivolgersi a un’altra struttura, il Genyo…».

Dopo aver preso contatto con la professoressa Rosario del Dipartimento di Chimica Farmaceutica di Granada, Laura ha dovuto aspettare una settimana prima di cominciare a lavorare. Il Genyo (Centro de Investigaciòn Genòmica Y Oncològica) è uno dei centri di ricerca più avanzati di tutta la Spagna, e per entrarci bisogna fare tutta una trafila, contattare professori che contattino a loro volta altri professori che contattino a loro volta…, chiedere permessi, autorizzazioni, redigere liste dei materiali che si intendono utilizzare, redigere liste degli orari in cui si intende accedere, redigere, stilare, redigere, stilare e far richiesta. Al Genyo ci sono apparecchiature che valgono centinaia di migliaia di euro e non è certo un luogo di passaggio. In attesa del suo laboratorio Laura ha cominciato a cercar casa, salendo e discendendo Calle Elvira e Calle Zenete, Calle Arandas e Calle Trabuco, girando, rigirando, avvitandosi su quelle scale che paiono non aver mai fine e che poi colano a picco su un minareto, un campanile, un canestro di lavanda, appuntandosi i numeri telefonici d’ogni fogliaccio sventolante trovato nei vicoli dell’Albayzín…

«Bella… Bellissima… Eppure non c’era verso di trovare una casa ammodo. Un sudiciume generale… uno sfasciume…». In due settimane Laura ha visto più case di Granada di quante ne abbia visitate un ottuagenario del posto. Le case Erasmus con le incrostazioni spocchiosamente spensierate dell’eterna sera prima, le case di anziane signore che affittano il ripostiglio in cui per un periodo, giuro, ci ha abitato mio nipote e c’è stato pure benissimo, e case verdi, verdissime, con le facciate sommerse dai rampicanti e gli interni bianchi, bianchissimi, ma scrostati, scrostatissimi. Alla fine è riuscita a sistemarsi. È andata da Pepe, un cinquantaduenne gestore di un locale in centro e col vizio della botanica. E infatti la casa di Pepe è anche la casa delle piante di Pepe. Ce ne sono ovunque. Nell’ingresso, in sala da pranzo, in camera, mentre sul davanzale è assiepata una colonia di grusonie, di cactus e agavi nane.

Dopo una settimana Laura è riuscita a entrare al Genyo. Il Genyo non è solo una struttura all’avanguardia, è anche una struttura nuova. Il laboratorio in cui ha lavorato Laura, per esempio, era ancora da installare del tutto. C’erano scatoloni e centrifughe e materiali ammonticchiati, incellophanati.

Laura studia e testa nanoparticelle. Le nanoparticelle sono prevalentemente utilizzate per veicolare farmaci. Non essendo invasive vengono studiate per la lotta ai tumori. Sono una specie di messaggeri in incognito che trasportano il farmaco laddove c’è bisogno. Invece di aggredire ciecamente la zona come la chemioterapia – con la conseguenza di investire e distruggere anche cellule sane – le nanoparticelle potrebbero colpire direttamente le cellule tumorali. A Granada Laura ha sperimentato un tipo di nanoparticelle (di polistirene) su due linee cellulari: quella umana e quella murina. È stata ore e ore e giorni in laboratorio, bardata, col camice, i manicotti, i copri scarpe, affondando l’occhio nel microscopio, avvolta da un silenzio assoluto. Fuori, dalle grate della finestra, infuriavano i latrati dei cani e le chitarre dolenti, la zambra e il ciarlare moresco. Sotto il chiarore opalescente di una cappa a flusso, con la mascherina e i guanti, Laura ha continuato a misurare la tossicità delle microsfere, mentre le immense vasche dell’Alahmbra esplodevano in mille riflessi. Ha fatto il suo lavoro, per giorni, mentre fuori l’Albayzín delle fontane, delle piazzette, dei cancelli fioriti, della luna piena, del romance musicale antico, dei patios arabi, dello scialle di cachemire, del garofano, mentre fuori l’Albayzin rintronava di vita, spettacolare e disordinata, e la Sierra Nevada scaraventava le sue vette, indifferente, verso il sole. E poi è uscita.

«Stare in Andalusia non è stata solo un’opportunità di studio e di ricerca…», mi dice versandosi un altro calice. «O meglio. È stata un’opportunità di ricerca… in tutti i sensi…». E infatti Laura un fine settimana ha abbandonato la linea murina in laboratorio, s’è tolta il camice, si è messa la felpa, un paio di pantaloncini ed è partita per l’Alpujarra. Da sola. Perché non voleva stare con nessun’altra persona tranne che con se stessa e perché aveva parecchie cose su cui riflettere.

«Era un periodo particolare per me… pieno di impegni, casini, non mi fermavo mai… Continuavo a fare. A fare. Le stesse cose. Gli stessi errori. Avevo bisogno di vedere altro…».

E così Laura è partita. Per prima cosa ha perso un autobus. Per seconda cosa ha perso un altro autobus. Alla fine ha preso un pullman al volo ed è arrivata a Órgiva. L’Alpujarra è una regione piena di cammini che attraversano molti paesi della Sierra Nevada. Laura ha camminato per ore, ha superato Bayacas e Capileira, ha fatto l’autostop, è arrivata a Pampaneira, ha schivato le avances di un vecchio cow boy dai giganteschi e concilianti baffoni, ha virato dritta verso un albergo e il giorno dopo è partita di buon mattino alla volta di Bubion. È lì, davanti a un bivio, che Laura ha incontrato Juan.

Fermo. Immobile e sorridente. Juan ha due cavalli. Prima era un alguacilillo e correva e non si fermava mai e aveva tutti i cavalli che desiderava e le selle e gli stendardi. Adesso fa il contadino. L’alguacillo sta alla corrida come il Mossiere sta al Palio di Siena. Non proprio: è un araldo a cavallo che apre simbolicamente la corrida. Fino a qualche anno fa Juan era un personaggio famoso e veniva intervistato e la gente si accalcava intorno a lui e lavorava col babbo di Luis Miguel Luchino González Borloni in arte Miguel Bosé e passava un sacco di tempo in mezzo a persone che lo intervistavano e lo salutavano e gli tiravano pacche sulle spalle solo perché era un alguacilillos. Adesso sta lontano dalle arene, non mangia carne ed evita di scendere in paese. Trascorre le giornate ad ascoltare lo sciagottio dell’acqua della Sierra e a osservare le aquile reali. Con i suoi due cavalli. Quando qualcuno passa da quelle montagne lo incontra. Una sfinge, poco enigmatica e parecchio pratica, coi mocassini bucherellati e il sorriso sghembo, luminoso. Chi lo incontra può scegliere: ascoltare i suoi consigli o fregarsene. Se ascolta i suoi consigli giunge a destinazione. Se preferisce far di testa sua s’infila in un ginepraio e se ne torna indietro livido di pruni e di vergogna.

Quando Laura ha incontrato Juan ha tentennato un po’, e poi ha deciso: non ha fatto né l’una, né l’altra cosa. Non ha proseguito.

«A volte bisogna fermarsi e guardare dove stiamo andando. Perché io non mi fermo mai, non ce la faccio… vado sempre avanti, avanti… dico in generale, eh? Però ogni tanto bisogna anche chiedersi… in che direzione sto andando? E perché proprio lì? Perché sono dipendente da qualcosa… da degli affetti… perché devo… o perché voglio?».

Laura è rimasta a parlare con Juan. Ferma. Per ore. Ore e ore a parlare degli affari loro, a sgranare formaggio al ramerino, nel silenzio della Sierra Nevada scosso solo a tratti dal grido di un’aquila. Quell’incontro, anche se è durato poco, ha dato un senso ulteriore al soggiorno di Laura in Spagna. Forse il senso più profondo. «Non capita tutti i giorni, a volte non capita per un’esistenza intera, di incontrare qualcuno nel momento esatto in cui si ha bisogno di… incontrarlo». Qualcuno che interrompa il flusso compulsivo degli impegni, delle cose da fare, da pensare, di cui preoccuparsi e occuparsi, l’aureola angosciante delle paturnie, dei doveri, delle frustranti abitudini. Qualcuno che ti mostri, ti faccia proprio vedere, con l’esempio e non con le parole, che ci si può liberare «dalle gabbie che uno si costruisce da solo. E partire. E pigliare il volo. È stato un incontro… non lo so… è durato solo un giorno, ma quando sono tornata a casa… in Italia… mi sentivo… non so come dire… Ci ho scritto anche un racconto. Se vuoi te lo mando », dice Laura versandosi un altro calice di vino.

(nda: le frasi in corsivo sono tratte da scritti di Federico García Lorca)

Questa storia è pubblicata anche su “Accenti – autonomi racconti di Giovanisì”, il volume che raccoglie 30 storie di beneficiari del progetto Giovanisì della Regione Toscana raccontate da giovani scrittori toscani 

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