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Alieni in Val di Chiana

Mauro - Fare impresa

Pare che la parola citto, così in uso nella zona di Arezzo e Siena, provenga dalla voce arcaica zitza, ovvero tetta: il citto era colui che succhiava la tetta, da lì poi è cresciuto, anche etimologicamente, fino a diventare un ragazzo. Oggi per dire che un giovane ha la testa sulle spalle e gli occhi dritti verso un futuro certo e incanalato sui binari della conformità, nell’aretino (o nel senese) si usa dire: «Quello è proprio un boncitto».

Da quando è piccolo Mauro se l’è sempre sentito dire: lui la testa sulle spalle ce l’ha sempre avuta. «Io voglio fa’ l’agricoltore», disse quando aveva 8 anni ai suoi genitori e non ha mai cambiato idea. Del resto, in famiglia sua, di agricoltura se ne sono sempre intesi tutti, a cominciare da quel nonno, il vecchio Ginepro Guiducci, che cominciò tutto con un capanno di paglia e sterco, due bovi e un aratro di legno ammuffito.

Ecco, fino a qui la situazione è abbastanza chiara: una famiglia contadina, gente di poche parole e braccia arse dal sole, e poi Mauro, il rampollo, l’erede, il futuro. Il futuro per l’appunto, parola chiave in questa storia: perché se Mauro non avesse avuto il terrore di essere troppo leint_ gato al passato o non avesse pensato di trovare la sua identità nella reazione al tradizionalismo famigliare, forse non si sarebbe spinto a chiedere dei soldi alla Regione, a sognare in grande, a far entrare la più avanzata tecnologia in un mondo fatto di galli che cantano o di rose profumate che salvano le vigne; e soprattutto non avrebbe fatto sì che nonno Guiducci si svegliasse una mattina e corresse per l’aia, col terrore negli occhi, sbraitando di aver visto niente meno che gli ALIENI.

Sì, proprio così: gli alieni, quei tipi indefiniti e indefinibili, quelli che stanno forse dentro qualche laboratorio della Nasa in New Mexico o nella fantasia di qualche artista, quelli che potrebbero distruggerci a colpi di raggi gamma o renderci persone migliori con un solo gesto della mano, quelli che hanno aiutato gli egiziani a fare le piramidi e i maya a stilare il loro “infallibile” calendario, quelli che hanno contribuito a distruggere Atlantide o hanno suggerito a Hitler di provare a conquistare il mondo, quelli che ogni tanto appaiono ai depressi o si divertono a inserire microchip sottocutanei a qualche malcapitato: insomma proprio quei tipacci lì.

E allora la domanda sorge spontanea: che ci facevano brutti ceffi di tale calibro in Val di Chiana, nell’aia di nonno Guiducci, una mattina di primavera?

Per rispondere a questa domanda bisogna fare un passo indietro e tornare al momento in cui Mauro, navigando su Internet, scoprì che avrebbe potuto livellare i campi di gran turco usando i raggi laser…

Mauro, come tutti i ragazzi della sua generazione, aveva sempre dato del tu ai computer, a Internet, e gli era venuto spontaneo, insieme a degli amici/colleghi, metter su un sito chiamato tractorum.it, che in breve tempo era divenuto un punto di riferimento per tutti gli appassionati del trattore, per chi – la mattina dopo colazione o la sera prima di addormentarsi (insomma quando gli pare) – abbia voglia di discutere della presa di forza dell’ARION 420 o sulla tenuta della cingolatura del NEW HOLLAND 72-85.

Ovviamente fu sul forum del sito, dialogando con un agricoltore di Lanuvio, che Mauro era venuto a conoscenza del sistema di livellamento laser. Il funzionamento non era difficile per un “masticatecnologia” come Mauro: sul trasmettitore andava impostato il piano del campo da livellare; tale misurazione veniva inviata, attraverso un raggio laser a 360°, al ricevitore che captava il segnale e lo inviava alla centralina che, tramite un’elettrovalvola, comandava il movimento di un cilindro idraulico che alzava o abbassava la lama realizzando a terra il piano impostato in precedenza. Semplice no?

Bene, vai a spiegarglielo a nonno Ginepro!

Mauro, un anno prima, aveva rilevato l’azienda agricola del nonno e aveva il pungolo di lanciarla verso nuovi e ambiziosi traguardi… Il nonno era però un freno a mano costantemente tirato. Mica che lo ostacolasse fisicamente, per carità, ma con la sua presenza (Ginepro abitava nel casolare di fianco all’azienda), il suo scetticismo cronico, i suoi occhietti azzurro freddo, il suo passatismo esasperato, il suo carisma involontario (era pur sempre il capofamiglia) poneva dei paletti che, a seconda del momento, prendevano la forma di scrupoli o inibizioni.

Mauro ci provava sempre a spiegargli le cose: «Vedi nonno, qui, a Pieve al Toppo, ci sono parecchi frutteti e spesso chiedono il campo a schiena d’asino perché la coltivazione della frutta non vuole ristagni idrici, per cui co’ sto macchinario nuovo…».

«Ma chi te lo fa fare! La frutta veniva fuori anche prima!», gli ribatteva il nonno lapidario facendo spazientire il nipote.

Tanto finiva sempre così: il concetto di fondo che fortificava le fondamenta di qualunque ragionamento di nonno Ginepro era uno e uno solo: «Ma chi te lo fa fare!». Come a dire: se le cose hanno funzionato tanto bene fino a ora, perché ti devi mettere a spendere soldi, a brigare, a perdere tempo per stare dietro a tutte queste “seghe contemporanee”?

C’è da cambiare il trattore? Ma chi te lo fa fare?
C’è da comprare una nuova diraspatrice per fare il mosto? Ma chi te lo fa fare?
C’è da impostare il sito internet dell’azienda? Ma chi te lo fa fare?
E via così… Fino a quando non arrivarono due “brutti clienti” a batter cassa con prepotenza: la legge e la salute.
Ma andiamo per gradi.

Ginepro, nell’ultimo periodo, aveva cominciato ad avere qualche passaggio a vuoto, calcisticamente parlando li si sarebbe potuti definire “svarioni difensivi”. Amnesie, frasi incongrue, sbadataggini improvvise. Insomma, dopo 85 anni vissuti senza un acciacco, la salute stava passando a chiedergli il conto.

Dal canto suo Mauro continuava a portare avanti l’istanza di rinnovamento dell’azienda e, stanco delle continue critiche disfattiste del nonno, decise di fare di testa sua.

La legge si diceva… Eh sì, perché quando il tetto del tuo fienile è fatto tutto di eternit e l’eternit è considerato nocivo per la salute, bisogna provvedere a sostituirlo. Mauro si organizzò, chiese un prestito alla Regione, trovò i soldi, chiamò la ditta, insomma organizzò l’operazione cambio del tetto, ma tutto senza dire una parola al nonno che, se avesse saputo che il suo fienile veniva smantellato avrebbe potuto anche avere un colpo, peggiorare di salute o andare oltre il solito ma chi te lo fa fare e impuntarsi a muso duro. Perché buttar via soldi per cambiare un tetto che ha sempre fatto il suo dovere e che anche il Nencini, un suo amico col fienile a Fontiano, non aveva mai cambiato e ancora va avanti?

Beh insomma, tante novità tutte insieme per Ginepro erano come tre tonnellate per un sollevatore abbinato a un New Holland T4: insostenibili!

E questo Mauro lo sapeva bene. La soluzione era quindi agire con l’inganno, benevolo s’intende, ma pur sempre un inganno. Con la scusa della salute cagionevole, si decise di mandare il nonno per qualche giorno a casa di Rosina – ovvero sua figlia, nonché zia di Mauro – affinché gli operai potessero provvedere alla sostituzione del tetto in santa pace. Ma né Mauro, né Rosina, né Angiolo (l’altro figlio di Ginepro e babbo di Mauro) avevano fatto i conti con l’intraprendenza del nonno, che una mattina, senza dire nulla a nessuno si alzò di buona lena e s’incamminò verso casa sua perché come diceva sempre: «Troppo tempo senza andà nel campo non ci so stare!».

E così fece.
Ma quando giunse nell’aia, ecco che gli si palesò dinanzi un uomo tutto vestito di bianco, con una mascherina altrettanto bianca in faccia, degli occhiali a specchio, uno strano aggeggio verde sulla schiena e il respiro corto, tipo quello del cattivo di Guerre Stellari. Al povero Ginepro manca poco venne un collasso, anche perché l’uomo in bianco che pareva sceso dal cielo gli disse con tono fermo:
«Stia lontano, non si avvicini!».
«Madoscalupa, ma chi sono questi in casa mia?», esclamò un Ginepro terrorizzato,
«GLI ALIENI!».

Disse proprio così, gli alieni, e al povero Mauro – che sopraggiunse di corsa qualche minuto dopo (chiamato dagli Alieni stessi) – gli ci vollero mezz’ora, tre bicchier d’acqua e anche un abbraccio fatto di calore e affetto, per convincere il nonno che non erano alieni, ma solo operai di una ditta di Arezzo venuti a smantellare il tetto di eternit.

Tutto sembrava essere risolto, se non che l’indomani, quando Mauro arrivò al fienile per controllare i lavori, uno degli operai gli si avvicinò e con fare accomodante gli disse: «Ce l’hai due minuti?».

Mauro seguì il tipo fin sotto una quercia lì vicino. L’operaio prese un cestino con del cacio di Pienza, del capocollo, una bottiglia di vino e lo mostrò a Mauro.

«Suo nonno ce l’ha dato dicendoci che forse nello spazio nessuno ha mai assaggiato il cacio di Pienza». Mauro aggrottò le ciglia, sembrava non capire.
«Io non so se accettare, oppure…».

Mauro sospirò, poi guardò il tipo e gli fece: «Tenete, tenete tutto. Si vede che il nonno era in vena di scherzi!».

Il tipo sorrise, Mauro un po’ meno perché sapeva che il nonno non scherzava e che, forse, la sua demenza senile stava galoppando oltre ogni limite di velocità consentito.

Dopo un paio di giorni al posto del tetto in eternit c’erano dei luccicanti pannelli solari. Mauro era molto entusiasta. Il nonno un po’ meno, più guardava quei “cosi” e meno ne capiva l’utilità.

E comunque disse al nipote: «Secondo te si va a migliorare? ».
«Sì».
«Allora va bene così. Sei sempre stato boncitto e la tu’ parola mi basta».

Passarono i giorni e il povero Ginepro stava sempre peggio, ormai usciva poco di casa e sul trattore non ci saliva più. Mauro lo andava a trovare tutti i giorni. Stava perdendo le coordinate del mondo reale, a volte però aveva dei momenti di lucidità improvvisi, di quelli che lasciavano tutti di sasso. Non aveva perso del tutto la sua vis polemica, come se ce l’avesse ancorata alla parte più profonda del cervello, che nemmeno la malattia poteva intaccare. E infatti, quando Mauro andò a dirgli:
«Nonno mi sposo».

Lui lo guardò con i suoi occhietti calmi, di un azzurro freddo, e lo liquidò così: «Ma chi te lo fa fare!».

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