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I tortelli di San Mommè

Elena - Fare impresa

Se queste montagne non si ergessero tanto alte
e scoscese sopra il livello del mare […].
Se le valli fossero meglio colmate e le pianure
più livellate e più irrigue […]. Se…
(Goethe, Viaggio in Italia)

 

San Mommé è 555 metri sopra il livello del mare. Non è montagna perché la montagna, dicono gli esperti, è sopra i 600 metri. Eppure la neve bussa alle finestre, lampeggia sui picchi brulli dell’orizzonte, è dappertutto. Persino gli abeti, notoriamente spavaldi nelle stagioni più miti, gli abeti che ostentano quel portamento tutto boria e signorilità in primavera, persino loro, oggi, a San Mommé e lungo tutte le greppe dell’Appennino devono ingobbirsi sotto il peso della neve. E stare muti, frusciando di tanto in tanto per un soffio di tramontana. Gli Appennini sono montagna, anche quando non sono alle altezze della montagna. Non hanno la verticalità delle alpi, ma i medesimi silenzi. Più fondi, sporchi e meno cristallini. Come se dietro l’inverno premesse il riverbero della bella stagione, fosse sepolto vivo il sole d’Aprile. E lottasse e gridasse. Gli Appennini non hanno gli orizzonti sconfinati delle grandi pianure e dei mari, e non sono una zona di contaminazioni febbrili come le città portuali. Eppure sono luoghi di transito. Da secoli. Terra di traffici, conquiste, di lotte. Avamposto di Goti, Bizantini e Longobardi, snodo durante la seconda guerra mondiale, tappa fondamentale dei tanti viandanti che dal 1000 sino ad oggi hanno percorso la via Francigena.

L’albergo Guidi a San Mommé è attivo da quasi un secolo, e in tutti questi anni è stato luogo di passaggio, di incroci e di lotte. Ha cambiato veste in più di un’occasione. Si è ampliato. È schiantato al suolo. È corso su, in altezza; è corso giù, perdendo pezzi. E poi si è rimesso in sesto, diritto. Superbo. Èmorto, rinato ed oggi ci fanno dei tortelli che dire che son buoni è poco, pochissimo. Nulla. Originariamente era un vecchio appalto. Una bottega in cui c’era di tutto, frutta, verdura, carne. Intorno al 1930 poi, Luigi Guidi, che a quell’epoca abitava Oltremanica, comprò un appezzamento di terra…

Storia di Luigi Guidi, emigrante
Se nel 1904 Luigi Guidi da San Mommé non fosse partito a cercar fortuna in Corsica, oggi, forse, al posto dell’albergo ci sarebbe ancora un piccolo alimentari. Salpò all’età di dodici anni. Girò mezza Europa, cercando un lavoro dignitoso che gli permettesse di mantenere a distanza la famiglia (sua madre, i suoi fratelli che stavano ancora a San Mommé). Girò e rigirò, Marsiglia, Genova, Ostenda, fino a Londra. Dopo vari anni di apprendistato nelle attività alberghiere – dal Savoy al Piccadilly – fu assunto come direttore dell’Hotel Ritz e divenne Mister Guidi. Nel 1930, grazie al contributo di Luigi, la sua famiglia acquistò quello che oggi è l’albergo, e che al tempo non era che una piccola bottega. Dieci anni dopo, nel 1940, Mister Guidi tornò nel suo paese d’origine con dodici valigie cariche di ogni ricchezza e «un brillante grosso così». Ce lo racconta Lorena, sua figlia, gonfiando a dismisura la doppia s di grosso, mentre le si illuminano gli occhi.

Lorena, a sua volta, è madre di Elena, la ragazza che poco tempo fa, quando l’albergo pareva destinato ad estinguersi, ha preso la situazione in mano. Ad aiutarla, oggi, oltre alla madre, ci sono anche il padre e gli zii, Roberto e Stefania.

Nel 1943, durante la Seconda Guerra Mondiale, l’albergo fu occupato dalle SS. Il piano terra fu trasformato in stalla, le camere del primo piano divennero la sala comandi degli ufficiali. Ancora oggi, in quelle stanze, è possibile vedere il pavimento scheggiato. Sono i segni dei tacchi dei militari tedeschi.

L’albergo Guidi è un deposito di segni, dove le epoche si accavallano, in una rincorsa frenetica. Il tempo ha lasciato molte impronte. Ha aperto e chiuso varchi. Chi passa di qui – clienti, habitué, viandanti – lascia una tacca, un ricordo. Non saranno fondamenta, ma anche su questo si edifica l’albergo. Oggetti apparentemente lontani s’appaiano, si danno di gomito, sui muri, sugli scaffali, annidandosi sin dentro le zuccheriere. La memoria non si forma solo per accumulo, o per ossessiva tutela. E finché se ne sta nelle teche è una mezza memoria, una memoria della memoria. Qui la memoria vaga come un ectoplasma sui soffitti, nell’aria, è ovunque. È una sventagliata di colori, son ferite, ed è fatta d’incontri e contraddizioni. È viva. Libera di andare. Proliferare. E così, ovunque, notiamo, notiamo di tutto. Non sono oggetti buttati alla rinfusa – inutili orpelli o ammennicoli per dare un tono – sono tracce che seguono il disegno del tempo. Tovaglie rosso fuoco, teiere di Hong Kong, matrioske da Pietroburgo, argenterie Sheffield, enormi vasi trionfanti di gerani e fiori finti ammosciati su antiche madie, mobili rustici fieramente toscani e credenze liberty direttamente d’Oltremanica, cartoline color seppia e televisioni ultrapiatte, poltrone imbottite e il bancone, il vecchio bancone, decano del luogo, imbarcato dal tempo e dai mille gomiti e dai mille vassoi che gli si sono poggiati sopra nel corso degli anni, consumandolo.

«Purtroppo dobbiamo cambiarlo», dice Elena. «È bellissimo. Ma vecchio. Troppo vecchio».

Prima di salire le scale del primo piano il pavimento ha un leggero dislivello. Scrutandolo con attenzione ci si accorge che le mattonelle da un certo punto in poi appaiono diverse, più scolorite, con altre fantasie e decorazioni.

«Il tritolo», soffia Curio prima di rinchiudersi in un allarmante silenzio. Curio è il padre di Elena e fa il pittore. Nella sala da pranzo, fra una radio anni novanta e un lampadario di filo di cristallo, campeggiano i suoi quadri: vedute, boschi, borghi e rilievi innevati. È una presenza discreta. Ci segue a distanza, annuisce e osserva sua figlia con orgoglio. Ogni tanto spunta dal nulla e con un lampo sibillino interrompe il flusso delle voci di Elena, Lorena e Stefania che si intersecano ininterrottamente.

«Il tritolo. Sì, sì… il tritolo», incalza e poi volge lo sguardo verso la moglie.

«I tedeschi», conferma Lorena indicando il pavimento, «prima di andarsene minarono l’albergo. Le cariche stavano proprio qui sotto. Se avessero funzionato oggi l’albergo non ci sarebbe più. E invece cadde solo una parte della struttura».

Per qualche anno l’albergo non ha avuto le scale. Oggi, addirittura, ha tre piani. E molte stanze. Ognuna ha un’indole diversa, una prospettiva unica della vallata, e pure un odore diverso. C’è quella con la lettiera in ferro battuto bianco e il comodino del 1800, quella col cassettone asserpentato, stretto e lungo, e c’è quella col letto in radica e il lavamano degli anni Trenta. È un albergo, d’accordo. Ma possiede il carattere di una casa. Dopo esser saliti notiamo un’altra rampa di scale, più stretta, che guida a una porta bassissima.

«Lì è meglio non entrare», fa Lorena.
«E dai! Son venuti fin quassù. Facciamoli entrare», ribatte Elena. Ha deciso da sé e ha già in mano le chiavi. Ci fa cenno di seguirla. Oltrepassiamo la porta uno alla volta. Da dentro la stanza provengono guaiti di meraviglia, “ohh” strozzati, cavalloni di “noooo”, “naaa”, “ehh”, e chi scende ha sempre la faccia stirata in un ghigno sbigottito. Quello è l’antro di Roberto. Lo zio di Elena. Uno sgabuzzo privo d’aria e carico di splendori. Nel breve spazio di tre metri quadri sono disseminati microfoni, valvole, condensatori a carbone, a spillo, a forma di trombone, cuffie che paiono caschi da palombaro, transistor, circuiti a cuore aperto dai quali si dipana un’incomprensibile selva di fili, cavi e tubi, radio a galena, apparecchi degli anni Settanta, della Seconda Guerra Mondiale.

L’Albergo Guidi è un biribissaio di stanze, cunicoli, angoli nascosti, di storie che si sono incise sui pavimenti e di ripide artificiali che portano a stanze delle meraviglie. Per quanto abbia quasi cent’anni non è arroccato nel passato. Elena ha molti progetti in serbo. Dopo aver partecipato a Fare Impresa, un progetto della Regione Toscana che sostiene l’imprenditoria giovanile, è riuscita a migliorare ulteriormente l’ambiente. La Regione ha fatto da garante per lei in banca e una volta terminati i lavori e presentate le fatture Elena riprenderà quasi tre quarti di interessi sul mutuo stipulato. Intanto è riuscita a dotare le stanze di televisori, rimesso un bel po’ di infissi, ha acquistato dei mobili in acciaio per la cucina, una nuova lavapiatti e, soprattutto, ha comprato un volano termico, ovvero un gigantesco boiler (5mila litri d’acqua) da collegare alla caldaia.

L’amore ai tempi del Pellet
Se Elena non avesse deciso di portare avanti l’impresa del nonno, oggi, probabilmente, Alberto starebbe a Montecatini e San Mommé, per lui, non sarebbe che un nome bizzarro, altisonante, sperso in qualche angolo dell’Italia. Elena e Alberto non si sono conosciuti a scuola, né in un locale, né hanno cocciato l’una contro l’altro per strada. Si sono conosciuti su un forum. E non un forum di quelli lì, che uno se l’aspetta come finisce e che ci si va apposta, per darsi appuntamento e innamorarsi. Elena e Alberto si sono conosciuti discorrendo di ghisa, caloriferi e cherosene. Il loro è stato un amore nato sull’altare del pellet. Sotto la calorosa egida di una caldaia, perché è su un forum per caldaie che si sono conosciuti. E adesso Elena oltre «a una bellissima caldaia a biomassa che brucia pellet nocciolino d’oliva sansa, legna, gusci di noci e addirittura mais misto pellet» si porterà a casa anche Alberto. Non subito. Fra un po’. Per adesso Alberto abita ancora a Montecatini, ma segue spesso Elena. La aiuta. È entrato a far parte della famiglia. È lui che, al termine del tour, quando ci siamo seduti a tavola, ci porta i tortelli. Quei meravigliosi tortelli fatti in casa, lavorati con la stessa macchina che usava nonna Ausilia.

Elena rimane in cucina, ha da fare. Èuna ragazza spiccia e piena di passione. Se deve cucinare, cucina. Se deve ragionare, ragiona. Se deve salvare un albergo, lo salva e ne costruisce uno più bello e accogliente di prima. Adesso c’è da preparare il filetto e nella sala da pranzo Elena non c’è. C’è Alberto che va avanti e indietro e c’è Curio. Curio che ondeggia sopra le note dei Gipsy Kings. Fuori non nevica, ma la neve è ovunque. Piantata in ogni anfratto. Come se fosse emersa dalla terra, invece di essere caduta dal cielo. Blocchi enormi che stanno ai bordi delle strade, e rivestono le gole scoscese dei monti. I Gipsy Kings continuano a squinternare la radio e Curio sussurra: «Il fratello». Ci voltiamo. «Il fratello di Elena», ripete. «Fa parlare la chitarra. Come Santana», e poi se ne va. Il tavolo si sta riempiendo di molliche di pane, schizzi di vino e la pappa al pomodoro fuma, non la smette mai di fumare. Dopo un po’ torna Elena. Ha finito di cucinare e ci può dedicare del tempo. In generale non ha molto tempo “da dedicare”. C’è da fare troppe cose: preparare la colazione ai clienti, accoglierli, farli sentire a casa, aiutare lo zio Roberto nei lavori di manutenzione, stendere la pasta, tagliarla, infornare questo e quello, fare la spesa, rispondere agli annunci. In questo momento noi siamo l’albergo e quindi Elena ci dedica del tempo. L’inverno sugli Appennini è lungo. Ma l’estate non è poi così breve. Nei mesi più freddi l’albergo ospita operai e gente di passaggio, durante la bella stagione è meta di villeggiatura per gente che viene da ogni parte d’Europa, e per i molti che si mettono sulle tracce della via Francigena, pellegrini, viandanti. A tutti, Elena e la sua famiglia dedicano lo stesso tempo e la stessa attenzione.

«Se queste montagne non si ergessero tanto alte e scoscese sopra il livello del mare, e non fossero tanto stranamente articolate da aver impedito nei tempi andati una maggiore azione delle maree, capace di formare pianure più ampie, questa sarebbe una terra stupenda col più mite dei climi. Così, invece, è un singolare groviglio di dossi montuosi contrapposti gli uni agli altri…», dice Goethe. Se Elena non avesse deciso di proseguire l’attività di famiglia oggi l’albergo Guidi sarebbe una casa gigantesca e, per gran parte, inutilizzata. La tenuta agostana di qualche milionario. Un villino frazionato in appartamenti tutti uguali. O, nel peggiore dei casi, sarebbe un rudere come ce ne sono tanti, spersi nell’Appennino. Un posto che fu di passaggio, ma di cui si è persa la memoria. E invece, fortunatamente, ci fanno ancora dei tortelli che ti verrebbe voglia di venirci a piedi, fin quassù, a San Mommé, a 555 metri sopra il livello del mare.

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