Lorenzo / #fareimpresa

Carne fresca

Lorenzo - Fare impresa

2009
Ogni volta che torno, Serena ha bisogno di almeno una giornata per sciogliersi per bene. Allora capita che facciamo l’amore. Finiamo, e cominciano i soliti lamenti: domani è già domenica, e io dovrò andarmene di nuovo. Ci aspetta un’altra settimana di telefonate alle otto di sera a dirci le medesime dieci parole in croce. Io a Pisa, per l’università. Lei impantanata a Roselle, nella periferia estrema di una Grosseto che di per sé non è granché, anche se prova a darsi l’aria da città contemporanea con tutte le forze.

Quando parto, gli occhi di Serena sembrano traditi. Bel fidanzato che sono: la lascio a marcire da sola, nel buco del culo del mondo. Mentre io… Qui a volte mi arrabbio un po’. Le dico che non vado a divertirmi. Me ne resterei più volentieri a casa, ad aiutare mio padre in azienda. «Certo, come no», fa lei. E poi attacca con il fatto che sarà anche una provincialotta che non ha visto niente, ma lo sa benissimo come funzionano le cose in un posto di universitari: festini nelle case di tutti, spinelli, musica, ragazze… «Vuoi che ti creda? », sbuffa. «Allora non dirmi che preferisci pulire la merda delle vacche invece di andarti a spaparanzare là, nella bella vita».

Eppure Serena mi conosce. Siamo praticamente cresciuti insieme. La prima volta che mi ha visto, forse non andavamo neanche alle elementari. Serena sa che tipo sono.

Allora mi sono fatto un’idea precisa: visto che lei non può permettersi l’università, mi ferisce. Torno, e se non mi parla di quanto io mi diverta nei dintorni dell’Arno, mi ripete la noia mortale del bar-tabacchi in cui lavora, dispersa su un satellite come Roselle, dove ci sono solo i vecchi. E lei. «Vedo crescere i ragazzini, come una decrepita», dice. Quindi comincia a dire di Sandro, suo cugino. Non fa che scriverle di raggiungerlo là in Australia, ora che Serena è giovane e ha tutte le possibilità. «Sarebbe un salto della madonna», mormora con gli occhi spersi nel vuoto. «Ci pensi? L’Australia…».

2010
Serena si annoia, così è diventata vegetariana. O vuole solo farmi un dispetto. Fatto sta che ha preso a cuore la causa animalista, se ne sta tutto il giorno piantata davanti a facebook a fare dibattiti, condivide fotografie di gattini e cani abbandonati. Niente in contrario, ma quando in azienda viene il momento della macellazione delle bestie, adesso Serena è capace di non parlarmi, e per giorni. Come se non sapesse che la mia famiglia tira avanti così da generazioni. Come se non sapesse che l’allevamento delle chianine è il futuro che mi sono scelto, non sto frequentando Scienze Agrarie a caso.

Spesso rientro a Pisa con la bocca amara di un mucchio di discussioni: la lontananza, al solito. Questa mia doppia vita che a lei non vuole andare giù. La chiama proprio così: doppia vita. In più, ci sono le domeniche, che mi ostino a “sprecare” con il calcio. «Si vede quanta voglia hai di passare due giorni risicati con me», dice. Giocare in terza categoria è l’ennesima mancanza che mi trascino dietro. Eppure mi serve. È come mantenere un filo vivo, tra quello che sono ora e il ragazzo che ero un tempo. E poi mi diverto, forse non c’è da aggiungere altro. Non partecipo quasi mai agli allenamenti, ma di partite non ne manco una. Quindi rientrare in fretta e furia, preparare la valigia. Prendere quello delle nove appena in tempo. Mentre il treno si muove, Serena mi guarda dal binario con lo sguardo di un cane abbandonato sull’autostrada.

Adesso si è aggiunta questa mania di non mangiare la carne. Nei giorni di macello rientro e aiuto come posso. D’un tratto Serena è interessatissima a tutti i passaggi del caso. A me fa piacere raccontarle il mio lavoro. Le dico che ogni bestia ha un suo passaporto personale. Nella nostra azienda ci sono solo animali IGP. «Significa Indicazione Geografica Protetta », le dico. Le bestie vengono al mondo qui, tra i nostri recinti. E si ingozzano, se la spassano un po’. Le puliamo ogni santo giorno. I trentadue ettari di terra che abbiamo, producono soprattutto i cereali con cui vengono sfamate. Poi, intorno ai diciotto mesi, le macelliamo. Più o meno vale la stessa cosa per le pecore, con le dovute differenze. È a questo punto che Serena si porta le mani alla bocca. Dice: «Oddio, ma sei un mostro».

2011
La bella notizia è che ormai la casa di Pisa non mi serve più. La discussione della tesi è all’orizzonte: presa la triennale faccio i bagagli e arrivederci. Poi c’è un’altra novità. Non bella: strepitosa. Non riesco a parlare d’altro, e infatti ripeto a Serena le stesse cose che ho già detto a mio padre.

Siamo in camera mia, seduti sul bordo del letto. Dico di queste persone che sono venute all’università. Hanno illustrato un’opportunità per i ragazzi, promossa dalla Regione. Insomma, in breve si tratta di questo: c’è la possibilità di fare domanda come Primo Insediamento. Il progetto migliore riceverà un contributo dall’Unione Europea. Eccetera eccetera. Guardo Serena dritto negli occhi. «Non hai capito? Entro in società con mio padre, a tutti gli effetti. E ci proviamo».

Lei non reagisce come mi aspettavo. Anzi, sembra spaesata. A guardarla in faccia, sembrerebbe colta dallo sgomento puro. Abbassa la testa. A un certo punto mi fa questa domanda:
«Senti, ma vuoi davvero passare tutta la vita a rivoltare i campi e la merda degli animali?».
Mi alzo, le dico di venire con me. La porto fuori. Ci fermiamo subito, proprio sulla soglia di casa. «Guarda», dico.

Le indico i tre grandi pini che ci sono in giardino. E poi i campi, dall’altra parte della strada. Le dico che un secolo fa mio nonno ha tirato su una catapecchia in questo posto, quando i pini erano alberelli di neanche un metro. Mio nonno qui ci ha passato la vita. Lo stesso ha fatto mio padre, e ancora dura. Guardo Serena. Le dico che voglio farlo anch’io. «Tutti hanno un sacco di smanie, cercano il loro posto nel mondo», dico. «Io ce l’ho, ed è qui, al Podere Cantoni». Faccio una pausa. Poi aggiungo, serio: «Ma se per te non va bene, me lo devi dire adesso. Lo capirei».

Serena fa un respiro grosso, guarda lontano. Ha davanti lo stesso orizzonte di sempre, che conosce bene. Alla fine mormora: «Basta che torni. Basta che la smetti di prendere quel cazzo di treno alle nove di sera».

2012
I primi macchinari sono arrivati a maggio, poco dopo il finanziamento. Sono già in corso i lavori per il rinnovamento e l’ampliamento dei recinti. La porcilaia verrà abbattuta e ricostruita da capo. Dopo arriveranno le nuove bestie. L’obiettivo è dare ospitalità ad almeno trentacinque fattrici. Intanto, ci prepariamo per i macelli di questa tornata.

Serena non c’è più. Stavolta il treno l’ha preso lei. Una sera si è semplicemente presentata a casa mia, a un’ora inaspettata. Pioveva. Vedendola arrivare così, mezza fradicia e trafelata, ho pensato che fosse successo qualcosa di brutto. Eppure sorrideva. O qualcosa del genere. L’ho fatta entrare.

Ce ne siamo stati a parlare al tavolo di cucina. All’inizio non sapeva come cominciare, continuava a torturarsi le mani con le mani. Poi ha alzato gli occhi, guardandomi in faccia. Mi sono subito accorto di una luce nuova. O antichissima, che non le vedevo da secoli. L’ha sputato fuori di getto, in poche parole: «Senti, io vado in Australia».

Mi ha spiegato che Sandro stava aprendo un ristorante, là, dove in quello stesso momento era giorno pieno e la gente andava al mare. E insomma, il cugino aveva chiesto a Serena se le sarebbe piaciuto passare un periodo da quelle parti. Le offriva vitto, alloggio e una bella paga. Senza considerare l’esperienza in sé. E il fatto di imparare l’inglese, direttamente sul campo.

In un momento mi sono trovato dalla parte opposta della barricata: lei che andava, io che restavo. Solo che Serena lo faceva in un modo spietato.
Me ne sono rimasto in silenzio, gli occhi nel niente. Ma nella testa correvano veloci centinaia di film, tutti insieme. Alla fine, l’unica domanda che sono riuscito a fare è stata questa: «E noi?».

2013
Al Podere Cantoni la vita è più o meno questa: sveglia alle sei. Fino alle undici c’è da rimpolpare le mangiatoie delle bestie. La stessa cosa dalle cinque della sera in poi. La pulizia degli alloggiamenti. Il resto della giornata se ne va tra manutenzioni e i lavori di stagione: in primavera la potatura degli olivi, in autunno lo scasso della terra. E poi la raccolta del fieno, la pressatura della paglia… Al Podere Cantoni ci deve essere sempre qualcuno, e adesso che mio padre comincia ad avere un’età quel qualcuno sono io. Comprese le domeniche e le feste comandate. Gli animali non vanno mai in vacanza.

La sera crollo di sonno già alle nove, stanco morto. Ho giusto il tempo di fare due giri su Internet, e ogni volta vado a cadere lì, anche se spesso cerco di resistere: il profilo facebook di Serena.

Trovo sempre fotografie nuove. E aggiornamenti di stato scritti in inglese, che io non capisco. Nei casi in cui mi accanisco di più, copio quelle parole, le incollo nel box di un traduttore.

Serena è dimagrita un po’, e si è fatta un taglio di capelli come certe attrici dei film. Molte fotografie sono insieme a una cicciona che sembra esquimese. In altre pare intendersela con un biondino sempre abbronzato, che a quanto riesco a capire anche lui lavora nel ristorante di Sandro. Si chiama Jack, il biondino. Ho spiato anche il suo profilo, riuscendo però ad accedere solo a qualche fotografia. Quel Jack ha una sacco di costumi che sembrano fosforescenti. Gli piace il surf, e altre cazzate così.

All’inizio ce lo siamo detto chiaramente: non ci saremmo persi. Poi è successo e basta. Serena si svegliava quando io crollavo di sonno. Era difficile anche solo trovarci per una chiacchierata su Skype. Ci siamo scritti, per un po’. Ci rispondevamo subito: io mi svegliavo, e trovavo un messaggio di lei; lei si svegliava, e trovava un messaggio mio. Poi le nostre reazioni sono diventate più lente, le lettere stringate, ridotte all’osso. Era brutto assistere a tutto questo, mi sembrava di vedere una fotografia che a poco a poco sbiadiva, senza rimedio. Fino al lungo messaggio di lei, in cui diceva tutto. La lontananza e blablablà. Il fatto che finalmente aveva trovato una sua dimensione. E insomma, aveva deciso di restare.

La cosa un po’ triste è che Serena mi piace di più ora. Nelle fotografie è un’altra persona, che non ho visto mai. Eppure siamo cresciuti insieme. È strano ritrovarmi a pensarla sotto le coperte, come se fosse una di quelle dive che ci sogni sopra, sapendo bene che non accadrà mai.

Ma c’è una foto, che più di tutte sa ipnotizzarmi per tanti minuti. In quello scatto Serena m’inchioda davanti allo schermo. Perché è bella e sembra sbarcata davvero da un altro mondo. È presa dalla vita in su. Indossa il sopra di un costume nero, di quelli che si allacciano dietro al collo. Serena si è messa un piercing all’ombelico. Una campanella, identica a quella che Jack porta sopra l’occhio destro. Serena si trova di fronte a un fuoco, sulla spiaggia, nell’ora di un tramonto da urlo. C’è un mucchietto di lattine di birra, poco dietro, sullo sfondo. Qualche tavola da surf. Una chitarra abbandonata male sulla sabbia. E Serena se ne sta lì, con gli occhi che brillano di felicità. Mentre azzanna divertita un pezzo di carne cotto alla brace.

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