Erika e Licia / #fareimpresa

Soprasotto, intreccio e crocevia

Erika e Licia - Fare impresa

Così un bel giorno recuperarono dei vecchi fumetti della sorella di Licia, che giacevano inermi nella sua cameretta, e certi spartiti dalla soffitta di Erika, residui di una carriera da pianista ormai abbandonata. E cominciarono a tagliare quella carta, talvolta ingiallita e segnata dal tempo, altrove ancora lucida ma ovunque custode di chissà quante vite precedenti, tra disegnatori e tipografi e alberi e canzoni. Ne fecero strisce. Le plastificarono, le piegarono, le intrecciarono tra loro. E quella materia apparentemente finita, tendenzialmente fragile, trovò in quell’intreccio la magia di una nuova forza, la scintilla per un’altra esistenza. Ne uscì un braccialetto. Che quasi per gioco fu messo in negozio. E piacque, parecchio, e si vendette. E se ne fece un altro, e poi un altro ancora. E quindi delle collane, degli orecchini, e poi altre strisce e nuovi intrecci per un portamonete, un borsello, una borsetta; anche gli interni sono realizzati con stoffe di recupero, magari utilizzando una vecchia maglietta colorata. E a dirla tutta le mani buone per trame e cuciture sono quelle di Licia, mentre Erika ci mette l’energia ma realizza soltanto gli oggetti più semplici; di certo condividono entrambe l’attesa e l’eccitazione quando un cliente prende in mano una nuova creazione e la soppesa, valuta il prezzo, ci pensa e ci ripensa, si avvicina finalmente alla cassa per pagarla; la soddisfazione, ecco, e la gioia. Che non può essere la stessa di quando vendono il pezzo di un altro.

Perché la carta intrecciata di Erika e Licia condivide gli scaffali, che in realtà nascono da vecchie cassette per il vino, con le creature di altri artigiani del riciclo.

Per esempio Laura è un’elegantissima signora che raccoglie di tutto, dai sassi ai bulloni, per poi svestirsi dei suoi gioielli e impugnare il saldatore, liberare nuove forme, come quando nella radice di un albero aveva visto la testa di un cinghiale. Dovette liberarla. Oggi la sua casa è diventata un laboratorio infinito da cui escono bigiotteria, specchi, cornici.

Peter invece viene dall’Inghilterra e faceva il manutentore, finché un giorno non ha scoperto quanto fossero malleabili le camere d’aria, troppo affascinanti per fare la fine dei materiali inquinanti; ha cominciato a tagliarle per trasformarle in borse e borsette, sempre nere, dove però si riconoscono le toppe delle forature, e certe scritte di marche e di misure.

Poi c’è il legno di John, ebanista colombiano che finì a Venezia restaurando barche, ancora lavora mobili ma l’estro gli sfugge dalle mani, e ciò che avanza nel suo laboratorio, mezze sedie o quarti di finestra, trova la forma di un oggetto tutto nuovo.

E poi ci sono vinili che diventano orologi, bottiglie che si trasformano in lampade, sugheri in sottopentola, scatolette di tonno-gioiello, stoffe, ceramiche, un cartello stradale come tavolino da fumo.

Il porto in cui approdano, e da cui ripartono questi oggetti e queste storie, sta nel centro di San Gimignano, a due passi dalle torri gemelle. Qualcuno lo chiama negozio, e in parte lo è, ma di certo non finisce lì. Una stanza sul livello della strada, nella cornice che è sfacciatamente medioevale, e poi delle scale che scendono giù, come cercando il cuore, il senso di quella terra; soffitto a volte e pareti di tufo e mattoni, temperatura costante da cisterna che raccoglieva il grano, per cui si vede ancora il foro comunicante con Piazza delle Erbe. Ha poi ospitato i macelli, per molti anni, e sul muro c’è la barra su cui agganciavano le carni. C’è l’aria frizzante d’inverno ma calda di secoli, di tanta storia. È stato questo sottosuolo a calamitare i sogni di Erika. Fu amore a prima vista. Lo scoprì quasi per caso. Perché come ogni buon sangimignanese nei negozi del posto non ci andava quasi mai, la spesa la faceva a Poggibonsi, ma stavolta era tutta un’altra storia.

Eccola qualche tempo fa, che non ha ancora trent’anni, per sei ha lavorato alla reception del campeggio, perché ha studiato lingue e il contatto con la gente le piace. È solare, le piace cantare, l’ha fatto prima nel coro polifonico e poi in una band, recita in una compagnia di teatro sperimentale, si sposa e diventa mamma e la vita diventa più regolare, ma tranquilla. Poi perde il lavoro. Di botto. Per un anno e mezzo non fa che girare e incontrare gente, immaginare nuove possibilità, organizza eventi con uno studio di comunicazione e anche questo aiuta a tessere rapporti, incamerare idee. Invece, avere un figlio piccolo non aiuta nei colloqui che si susseguono, uno dopo l’altro, mentre la ricerca di un lavoro normale diventa un’odissea, talvolta umiliante. Poi s’imbatte in quel fondo e comincia a immaginarselo come il futuro. Perché a lei la voglia di aprire uno spazio di «arte, artigianato, restauro e creatività ecosostenibile, riciclo, per ricordarci che il mondo delle idee non ha data di scadenza» era venuta da un pezzo. Doveva soltanto trovare cuore e gambe per farla camminare. L’alibi di non avere un luogo possibile, da cui cominciare, oggi non esiste più.

È giovedì. La sera Erika piange. Da sola non può affrontare un’avventura simile, ha perlomeno bisogno di una spalla. E di coraggio. Le viene in mente Licia, la cugina di suo marito, che da diverso tempo sta cercando lavoro, invano. Lunedì la invita a cena. C’è quel piatto di salmone imperturbabile al centro della tavola e c’è Erika che racconta i suoi progetti, c’è il suo entusiasmo contagioso e ci sono le paure e le perplessità e dall’altra parte c’è Licia, che non dice nulla ma proprio nulla. Ha poco più di vent’anni, ha sempre fatto la commessa e questo aiuterebbe nell’impresa, certo che aiuterebbe. Finora ha venduto borse e articoli sportivi, ma l’ambizione di avere un qualcosa di proprio l’ha sempre inseguita. Ha studiato ragioneria ma non si è mai immaginata immobile dietro una scrivania, anzi, sente che il proprio estro creativo non può realizzarsi soltanto in cucina per gli amici, dove peraltro è una cuoca sopraffina. Sta zitta e pensa. Guarda il salmone, immagina, rimugina. Mangia il dolce.
«Devo elaborare», sentenzia quando è l’ora di andare via.
«Dimmelo domani», dice Erika, che forse crede di averle già lasciato troppo tempo per decidere.

ogni giorno, anima e cuore, perché il domani è ancora tutto da creare

Il 31 marzo dell’anno successivo, che è il 2012, s’inaugura Soprasotto, chiamato così per la forma del fondo ma anche perché i due spazi vorrebbero in qualche modo mantenersi distinti, avere due identità, sopra il negozio e sotto un polmone che viva autonomamente di mostre e laboratori, corsi, incontri, scambi. Si alzano i calici, si brinda con tantissima gente come davanti a un traguardo raggiunto e questo lo è, perché non si è dormito nelle ultime notti e si è lavorato tanto negli ultimi mesi, di testa e di braccia tra pennelli e vernici e arredamenti e mille faccende; già tutto sembra bello e funzionale, anche se soltanto il tempo donerà agli spazi una vera somiglianza con le sue ideatrici. C’è tanto lavoro e c’è la burocrazia, a quintali, e ci sono sempre i problemi di soldi; e c’è l’intervento di Giovanisì, che garantisce sul finanziamento (anche se arriva con un ritardo da infarto) e prospetta un possibile contributo (anche se ancora non si è visto). A questo referente, Erika e Licia riconoscono il grande sforzo di comunicazione, la volontà di ascolto, mentre imputano la macchinosità di procedura e la lentezza dell’intervento. Che poi quel traguardo, e te ne accorgi fin dal giorno successivo, è soltanto una partenza, e c’è da combattere sempre.

Soprasotto è aperto, il negozio attende e accoglie i suoi clienti, il seminterrato si propone come crocevia di collaborazioni, propositi buoni per l’oggi e il domani; come l’intreccio di quelle strisce di carta che vengono dal passato per immaginarsi un futuro nuovo. Erika e Licia sono lì, ogni giorno, anima e cuore, perché il domani è ancora tutto da creare.

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