Per caso
Matteo
Il portone principale è aperto, entro e seguo il corridoio. Incrocio un paio di persone e penso che mi fermeranno, che mi chiederanno chi sono, cosa ci faccio lì. Invece mi salutano con un sorriso, rispondo “buongiorno”. Seguo il corridoio anche se non so dove mi porta, vado a istinto che in genere mi fa sbagliare. Ma appena svolto l’angolo Matteo è lì, lo vedo. Ha una t-shirt blu con uno stemma rosso e giallo disegnato davanti, i pantaloni della tuta neri. Si aggira tra gli ospiti, ride alla battuta di una signora sulla carrozzina, poi stringe la spalla di un ometto raggrinzito e mima con lui uno scambio di boxe. Lo osservo mentre mi avvicino e penso: è diverso. Intanto ha i capelli più corti. Non ha gli occhiali. La prima volta che ci siamo visti portava un paio di occhiali, sono quasi sicura, con la montatura spessa e nera. La barba ce l’ha ancora, è lunga, incolta, una scelta ribelle, almeno questo sembra. Lo chiamo e mi viene incontro quasi a braccia aperte, per darmi il benvenuto e io mi rilasso immediatamente.
Anche lui è più rilassato. Quando ci siamo conosciuti eravamo imbalsamati, forse tutti e due un po’ timidi, un po’ spaesati dal contesto. Mi chiede se ho trovato bene la strada, se ci sono stati problemi. Tutto a posto, rispondo. Fa caldo lì dentro, ma l’aria non è pesante anzi, c’è odore di pulito. L’ambiente poi è grande e arioso. Ci sono tante piante verdi e quadri ovunque, colorati, allegri. Intorno a noi ci sono gli ospiti, stanno seduti su delle poltrone o passeggiano. C’è attesa nell’aria, si percepisce bene. Matteo mi spiega che tra pochi minuti inizia il pranzo. Ah ecco, ora mi torna. Questa è la prima volta che metto piede in una casa di cura per anziani, ma a Matteo ancora non lo dico. Mi presenta un po’ di ospiti. Matteo dice: lui è Ubaldo. Non c’è verso di fargli ricordare il mio nome. Come mi chiamo io? Gli urla a Udaldo. E lui sorride che sembra un bambino e fa: Gianfranco. No. Gianmarco. No. Giancarlo. Va beh, si ostina con questo Gian. Poi arriva un ometto piccolo e magro. È Aldo. Ci stringiamo la mano.
È nato ad Arezzo, dichiara e mi chiede di dove sono io. Rispondo che sono di Firenze ma si rallegra quando gli spiego che il mio nonno paterno era aretino e mio padre di Castiglion Fiorentino. Chiacchieriamo a lungo, cioè più che altro è lui che parla, giustamente. Solo che ancora mi stringe la mano. La tiene nella sua, non molla. Lo sa che io so tutta la formazione della Fiorentina a memoria? E inizia a sciorinare nomi che non ho mai sentito. Probabilmente si tratta di una squadra di tanti anni fa che io manco ero nata. Aldo, gliela vogliamo restituire la mano a questa ragazza? Dice Matteo. Aldo ride contento e molla la presa. Mi dà una pacca sulla spalla e mi dice: brava, brava. Il pranzo è pronto e subito inizia l’esodo degli ospiti in una sala grande. Matteo deve aiutare a servire, si è messo il grembiule e una cuffietta bianca in testa. È buffo. Mi dice che mi ha riservato un posto alla tavola rotonda. Oddio, che è? In mezzo a tanti tavolini da quattro e dai sei, c’è questo tavolone grande, tondo. Dieci persone già sedute e un posto vuoto: è il mio. Mi chiede se me la sento di stare lì. Me la sento? Ma sì, dai. Vediamo che succede. Dunque mi siedo tra Giuseppe che è un signore sui settantacinque anni e Marisa che forse ne ha di più. Ha l’espressione un po’ persa ma ci tiene ad informarmi che da quattordici anni vive in questa Casa di Cura, che ci si trova bene, che ormai non cambia più.
Chiacchieriamo, mi faccio raccontare un po’ di storie. Poi arriva la pasta: penne al pomodoro, e come si inizia a mangiare cala un silenzio religioso. Finito il primo la conversazione alla tavola rotonda riparte automaticamente fino a che non viene servito il secondo: baccalà con i fagioli oppure brasato. Mary, una signora seduta poco distante, con i capelli bianchi e soffici e l’aria molto aristocratica, indica il mio piatto vuoto e mi chiede perché non mangio. E qui si scatena la solidarietà dei presenti per il mio digiuno. Ma si faccia dare qualcosa, qui il cibo avanza sempre, prenda anche lei un pezzo di baccalà. Rispondo un po’ impacciata che non ho fame, che mangerò più tardi. Matteo nel frattempo continua a servire. È gioviale, quasi luminoso. Ogni tanto guarda verso di me, mi controlla. Da lontano mi fa un cenno, mi chiede se è tutto a posto, gli rispondo tutto ok. Mentre le forchette dei commensali affondano nel baccalà, li osservo e mi viene da chiedermi perché si trovano qui, se hanno una famiglia, dei figli e se sì perché non vivono con loro. Indubbiamente questo posto è molto bello, però… E mi prende come uno struggimento che mi si incolla nel petto, sento affiorare un senso di pietà, quella che ho sempre odiato perché è un sentimento inutile, non serve a nessuno se poi lo si tiene per noi. Mi tocca di fare anche uno sforzo per scacciare le lacrime.
Chissà perché mi è presa così. Comunque alle tredici il pranzo è finito e i tavoli sono già sparecchiati. Il servizio di Matteo è terminato, è libero dalle sue mansioni e mi porta a fare un giro per la casa di cura. È grande, ha tante stanze: la palestra, la sala dove si balla, il salottino per le partite a briscola e a scala quaranta. Qui si fanno tante attività, si cerca di tenere gli ospiti sempre attivi. Matteo poi se li coccola uno per uno, e sono tanti, più di trenta. Gli equilibri sono delicati, fatti di piccole ritualità che vanno rispettate, ripetute ogni giorno. Se Matteo una mattina si dimentica di salutare Marisa con la solita frase che usano tra loro, lei se ne accorge, ci rimane male, gli tiene il muso. Bisogna stare attenti.
Ogni giorno vengo qui e il mio principale impegno è regalare a queste persone un po’ di serenità.
Già perché Matteo è soprattutto questo: è la sua fede, forte, quasi insolita per la sua generazione. Ha finito il liceo e si è iscritto a Scienze Religiose. Parliamo di questo, della sua spiritualità e su tanti aspetti ci capiamo, la penso come lui. Io però non frequento la chiesa. Lui invece va a messa tutti i sabati pomeriggio. Ma scusa, i tuoi amici lo sanno? Gli chiedo un po’ per scherzo, un po’ per capire. Matteo sorride ma non abbassa gli occhi. Non li abbassa mai.
Sì, lo sanno. Non mi andava mica più di raccontargli balle. Ormai mi hanno accettato così, hanno capito. Però ci tiene a dirmi che non fa la vita da seminarista, nel senso che la sera tira fino a tardi anche lui, che a volte si prende una sbronza. Insomma è un ragazzo come tutti. Però quando viene a fare servizio in questa Casa di Cura ci tiene a dare un contributo che sia concreto. Non lo vuole intendere come un lavoro, anche se a fine mese ha il suo stipendio che mica si rifiuta.
“L’altro” è il mio obiettivo, dice.
In che senso?
Prova a spiegarmi cosa intende dire ma ammette che è difficile, che a parole non riesce. Ci prova.
Aiutare senza pensare a noi stessi, annullare la gratificazione personale, superare quel momento e darsi completamente all’altro.
Lo guardo basita: ricordami quanti anni hai? Gli chiedo.
Venti.
Mi fai paura.
Sorride di nuovo.
Volevo studiare ma anche lavorare, essere un minimo indipendente. Ai miei ancora non avevo detto che volevo cercarmi un lavoro, però un giorno capita a casa il volantino con il bando di Giovanisì per il servizio civile. Mio padre lo stava per buttare, poi però ci ha ripensato; mi ha chiamato al telefono e mi ha chiesto: ti interessa? Mi sono iscritto al bando ed eccomi qui. Se mio padre avesse buttato via il volantino…
Rimane un attimo in silenzio, poi dice: sarà stato il caso. Altro attimo di silenzio. Te ci credi al caso? Mi chiede.
Mah, dai discorsi che abbiamo fatto fin’ora mi sa che nessuno dei due ci crede.
Comunque sono già due ore che chiacchieriamo e non ce ne siamo resi conto. Io devo tornare a casa e lui ha lezione all’università.
Ci salutiamo, ci promettiamo di risentirci presto.
Mi avvio a piedi con la testa piena dei nostri discorsi e mentre cammino mi viene improvvisa una domanda: sarà un caso aver conosciuto Matteo proprio in questo momento?
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