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Sono nata per me, ma mi frega l'amore

Scritto e pubblicato da Martina
Martina - Servizio civile

Ho preso un impegno, un impegno grosso, si chiama Servizio civile.

Ho scelto loro e loro hanno scelto me, che fortuna vero? Un anno facendo quel che amo fare. Lo stipendio non è alto, i soldi non sono tanti e sicuramente sarà tanta la fatica, ma se verrà ripagata dai sorrisi, dalla pienezza d’animo e dal sentirsi utile per qualcuno ne sarà valsa la pena. Io e loro abbiamo già iniziato a conoscerci e forse ci piacciamo! Sono passati solo pochi giorni dalla partenza e già mi sembra un’avventura…è difficile, ti porta a farti mille domande e a guardare dentro te stesso. Una di quelle che io mi faccio più spesso è “sono all’altezza?”.

Il primo giorno, erano gli inizi dello scorso Dicembre, pioveva.

Me lo ricordo perché sono una persona pessimista di natura e alla vista di quel temporale non ho potuto non pensare che fosse un segnale che qualcosa stava andando male.

Al mattino mi presentai come da copione per l’incontro con la tutor all’interno dell’associazione, con me altri due ragazzi del mio stesso corso di studi.

Al termine della riunione mi dissero di presentarmi nel primo pomeriggio per iniziare e seppur con un po’ di timore, entrai nella stanza del centro socio educativo.

Circa dodici bambini dai sei ai tredici anni fermarono immediatamente ciò che stavano facendo per guardarmi. Mi squadravano come si fa con qualcuno che non si è mai visto, e dentro di me ho iniziato a pensare se davvero fossi giusta per questo mestiere, se stessi già diventando rossa in viso come mio solito fare, se sarei mai stata capace di rapportarmi con loro che ormai avevano le loro routine e le loro figure di riferimento.

Per fortuna uno degli educatori mi ha aiutato subito a sbloccarmi e nelle ore dei compiti ho potuto relazionarmi sia con l’ambiente che con i ragazzi cercando di venire a contatto un po’ con tutti sia nelle attività educative che in quelle di gioco e svago.

La sera arrivò presto e anche il tempo di salutarsi. Tornando a casa pensavo che ancora non avevo memorizzato tutti i nomi, neanche i ragazzi avevano memorizzato il mio, ma che era solo questione di tempo prima che quel distacco tra chi si conosce poco o niente diventasse confidenza.

Durante i coordinamenti settimanali con gli operatori e gli educatori del centro ho iniziato a capire come erano strutturate le attività: una giornata tipo era formata da due ore circa di compiti, la merenda tutti insieme nella stanza grande e altre due ore circa di attività ludiche o educative a seconda del giorno. Il giovedì ad esempio c’era in programma il cineforum mentre il venerdì i più grandi si mettevano in cerchio per discutere di argomenti riguardanti la cittadinanza.

Mi sono fermata spesso, nei giorni di attività libera, ad osservare i comportamenti dei ragazzi ed era molto bello vedere i più grandi aiutare i piccoli nei compiti oppure vedere i piccoli cercare i grandi per farsi prendere sulle spalle, per giocare tutti insieme a pallone quando il tempo permetteva di uscire un poco fuori.

Certo, i litigi e le incomprensioni non mancavano e a volte facevano uscire la parte “bisognosa” di ognuno di loro, il vero motivo per il quale si trovavano in un CSE, vedere però tutta quella sintonia e quel volersi aiutare l’un l’altro era un ottimo spunto per provare a tirare fuori anche la parte “buona”, mettersi in gioco e rischiare di fallire pur di non pensare a se stessi per una volta ma agli altri.

Ci ho provato, ci ho provato spesso e a volte mi sono sentita tradita o rifiutata o poco considerata quando proponevo dei giochi e i bambini volevano farne altri, quando vedevo comportamenti sbagliati e tentavo di riprenderli per correggerli ma loro non mi riconoscevano come figura di riferimento, quando avevo un’ottima idea che per loro era solo un’idea stupida. Avevo due possibilità a quel punto, arrendermi o gonfiare i polmoni e continuare a sperare che prima o poi imparassero per bene il mio nome.

iniziava la seconda parte del mio viaggio. Stavo diventando un’altra persona.

Ho fatto la scelta giusta e non me ne sono pentita mai. Adesso sanno che possono contare su di me e piano piano le soddisfazioni sono arrivate. È stato bellissimo sentirsi chiamare da F. perché aveva bisogno di sfogarsi, o da L. perché non sapeva come fare a scrivere una lettera alla ragazza che gli piaceva. È stato bellissimo seppur malinconico anche quando, dopo circa un mese e mezzo la mia attività di stage si è trasferita all’interno dello Spazio Giovani Al Kalè, anch’esso parte dell’associazione Pozzo di Giacobbe, così da poter provare esperienze diverse.

L’ultimo giorno al CSE ho deciso di portare una torta per salutare tutti i bambini anche se sarei tornata spesso a trovarli e mi sono emozionata nel sentire G. che mi chiedeva di non andarmene, di rimanere con loro. Tutti quegli occhietti che così poco tempo fa mi squadravano appena entrata dalla porta, adesso mi abbracciavano.

Il giorno successivo iniziava la seconda parte del mio viaggio. Stavo già diventando un’altra persona. Senza accorgermene mi trovavo a ripensare a ciò che era successo, a come potesse essersi sentito qualcun altro, il mio baricentro si spostava sempre più in periferia fino ad arrivare quasi ad uscire dal mio corpo per concentrarsi sul resto del mondo.

C’era un’altra porta da varcare in quel freddo pomeriggio di Gennaio, c’era un nuovo mondo sconosciuto di cui avevo sentito parlare solo dai docenti che lavorando con gli adolescenti ce lo avevano saputo raccontare, forse c’era un’altra parte di me da scoprire e non vedevo l’ora anche se mi spaventava l’età dei ragazzi con cui avrei avuto a che fare.

Allo spazio giovani infatti, la fascia è dai quattordici ai venticinque anni e ciò voleva dire che avrei potuto trovare ragazzini delle scuole medie ma anche ragazzi più grandi  persino di me. Cosa avrei potuto portare se la loro esperienza era più vasta della mia?

Dietro il portone di legno c’erano due stanze: in una i tavoli e dei computer, nell’altra un calcio balilla, un ping-pong, dei divani e una televisione con attaccata una consolle.

Inizialmente non c’era nessuno, la giornata era una di quelle classiche invernali, così ho potuto prendermi del tempo per fare delle domande alla tutor.

Lì le figure di riferimento erano due educatori soltanto, non c’erano attività strutturate, non c’erano orari, non c’erano ragazzi che dovevano rispettare un certo calendario. Lì era aperto a tutti, senza distinzioni. Si poteva passare anche solo per fare un saluto oppure fermarsi per stampare un curriculum, per avere aiuto nei compiti, per raccontare un aneddoto, per stare semplicemente in compagnia. Si passava perché si sapeva di trovare una porta sempre aperta e qualcuno con cui relazionarsi su grandi o piccole cose.

Chi capitava per la prima volta poteva iscriversi lasciando i propri contatti ed entrava subito a far parte della banda, a condizione che rispettasse le poche e semplici regole: niente parolacce, niente bestemmie, rispetto per cose e persone. Una grande famiglia.

Essendo abituata alla “scaletta” del CSE mi sono trovata un po’ spiazzata nel vivere questa nuova situazione così libera, poteva capitare un giorno in cui il quaderno delle presenze era pieno e un giorno in cui non sarebbe venuto nessuno. Si poteva stare li a far niente o si poteva giocare insieme a qualcosa. Dovevo abituarmi e al contrario di quello che pensavo non è stato poi così difficile, dopo le prime incertezze e le prime “radiografie” per capire con chi avevamo a che fare, il rapporto coi ragazzi si è subito intensificato e si è creata confidenza col gruppo fisso che trascorreva più tempo allo spazio giovani rispetto ad altri.

Credo che il giorno più difficile sia stato quando, durante un torneo di biliardino organizzato da me e dalla mia collega Francesca in completa autonomia, è stato rubato un cellulare. Il nostro povero calcino è stato rimesso in vita da poco dal babbo della Francesca, le stecche e il resto sono tornate al loro posto e noi siamo tornati a giocare tranquilli senza il pensiero che qualcosa si staccasse improvvisamente, ma ogni tanto va unto sennò fa un rumore terribile.

Avevamo fatto un foglio dove i ragazzi avevano scritto i loro nomi per iscriversi e l’avevamo attaccato sulla porta a vetri una settimana prima. Arrivati a giovedì eravamo tre/quattro squadre e dopo aver disegnato uno schema è iniziato il torneo. Io e la Francesca quel giorno eravamo sole al centro perché la Rosi e l’Anna erano in riunione nelle stanze li accanto e sembrava tutto tranquillo fino a quando R. è entrato nella stanza del calcino e ha detto che non riusciva più a trovare il cellulare di Z. che stava usando per giocare e guardare video. L’aveva lasciato sul tavolo, si era allontanato un attimo, ed era sparito.

A Z. questa non gli ci voleva proprio, ne ha già tante per conto suo… Da fuori non era entrato ne uscito nessuno di noi quindi il colpevole era per forza in quella stanza. So che sembra quasi un telefilm giallo, ma noi non siamo detective e anche se abbiamo provato a mantenere la calma con noi stesse e tra i ragazzi, la situazione non era delle migliori. Z. si stava agitando, era molto deluso per il gesto che era stato fatto e forse un po’ impaurito per quello che avrebbe detto sua madre una volta tornato a casa, vista la situazione economica. Io e la Francesca siamo riuscite a non far precipitare la situazione anche se gli animi si stavano già scaldando, poi è arrivata l’Anna  e abbiamo tirato un sospiro di sollievo, forse con lei i ragazzi sentono di più l’autorità. Personalmente ci sono rimasta male, non solo perché è successo quando io e la Frau eravamo sole e quindi ci hanno prese in giro approfittandosene di noi, ma anche perchè ho visto la delusione negli occhi di Z. mentre si chiedeva “perché l’hanno fatto?”.

Il giorno dopo c’è stata una riunione per parlare di questa cosa e ovviamente non è tornato fuori ne il telefono ne il colpevole. Z. oltretutto scalpitava, si vedeva che voleva chiudere quel discorso per iniziarne un altro che gli premeva di più. Quella lettera che suo padre gli ha inviato dalla prigione mi ha fatta piangere, sentivo un nodo allo stomaco. Spero soltanto che riesca a trovare il modo per scrivere ciò che sente e che gli scoppia dentro…

L’adolescenza è un periodo molto complicato e particolare della vita di una persona, soprattutto se la si vive avendo abbandonato la scuola, non avendo una situazione familiare o economica facile, non sentendosi adatti in qualche modo per qualche motivo.

Scavare a fondo nell’intimo di una persona non è mai semplice, ma quando quella persona decide di farlo spontaneamente dovresti essere pronto. Quando Z. si è sentito pronto a fidarsi di me e ha deciso di raccontarmi la sua storia però, io non ero pronta a sentirmela addosso. Non ero pronta a sapere che suo padre è in carcere, che sua madre non c’è mai, che suo fratello è caduto in un brutto giro e che in casa sua non si arriva a fine mese.

Così come non ero pronta a sentire che E. ha avuto un figlio a sedici anni, che K. ha perso un arto in un incidente e che A. soffre di anoressia ma non se lo vuole sentir dire.

Ieri sera è stato interessante.

Interessante veramente se si pensa che era da un bel po’ che non ridevo in quel modo… è successo che siamo andati tutti insieme a mangiare una pizza mentre guardavamo i video nuovi di Rihanna e Shakira e si chiacchierava tanto che i video trasmessi successivamente non me li ricordo, è capitato che salendo tutti sul pulmino carichi di borsoni da calcio siamo andati a Prato cantando a squarciagola e sparando battute a raffica anche se eravamo stanchi al ritorno, alle 10 di sera, con la voglia di stare insieme prima di tornare ognuno solo a casa.

Per via della mia nota capacità di diventare color fuxia nel parlare davanti agli altri mentre tutti mi stanno guardando, ricordo con muto e calibrato dispiacere quel momento fatidico in cui, finita una lezione importante tipo quelle sui valori o sulla comunicazione o sull’empatia o su simili temi, l’insegnante poneva la fatidica domanda: “cosa ti porti via e cosa ci lasci?”

Era un momento critico, non scherzo. Penso che per me non ce ne fossero di peggiori. Avevo molto da dire, magari c’era stato un argomento che mi era pure interessato, ma arrivato il mio turno puntualmente mi bloccavo. Sentivo le guance avvampare e stop, fine. Le uniche cose che riuscivano ad uscire mentre tutti i presenti mi guardavano e magari pensavano che fossi tenera sorridendo come ebeti, erano nemmeno un terzo di quelle che mi ero prefissata nella mente. Chissà, forse tutto questo amore per la scrittura è stato un miracolo, per lo meno ho trovato un mood per esprimermi visto che tuttora la situazione non cambia. Comunque, se in questo momento mi chiedessero cosa mi porto via da questa serata in preparazione alla marcia in ricordo delle vittime della mafia, risponderei che mi porto via quella pizza sgranata in mezz’ora, i discorsi importanti, il mal di collo per aver visto il film sdraiata in terra, le risate, gli occhi lucidi, il menefreghismo di qualcuno ma la noia di nessuno. In cambio lascio l’emozione e le frasi che mi sono rimaste in testa di questo film tanto comico quanto duro e un pensiero “per non dimenticare”.

Quando si cresce in una famiglia standard circondati dall’amore e convinti che certi problemi siano lontani da te, non si è mai pronti e si finisce per piangere delle sofferenze altrui e a volte di sentirsi inutili e piccoli in confronto a certe enormità.

Succede però che un giorno esce il sole e che A. ti invita a giocare insieme a “schiaccia sette” nel piazzale, che si ride insieme divertendoci e che per sbaglio faccio un lancio lungo mandando il pallone sul tetto del garage, quindi ci si ingegna nel prenderlo e si collabora e si scoppia a ridere quando scivola giù dal tetto e va a finire nel bel mezzo della siepe. Sembra che tutto sia svanito, che anche grazie a te non si pensi più al male e quel momento diventa utile per seppellire i dolori anche solo per un attimo.

Si organizzano le gite e le merende nel parco della villa quando farà bel tempo, entri a far parte della loro vita e solo una volta tornata a casa ti riprendi la tua, ma con pensieri diversi.

Si rischia questo ad entrare in contatto con gli altri, a spogliarsi delle cose inutili, a provare a guardare oltre gli orizzonti che già conosciamo. Si rischia di essere nati per se stessi, ma d’esser “fregati” dall’amore verso il prossimo.

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