Donne e giovani, nuove idee sul lavoro: l’approfondimento del Corriere della Sera
Data e ora: Pubblicato il: 10 Gennaio 2012 13:50
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Secondo gli ultimi dati Istat relativi al mese di novembre il 30 per cento dei giovani italiani nella fascia d’età tra i 15 e i 24 anni non ha un lavoro. La percentuale di disoccupazione giovanile è quasi quattro volte la disoccupazione media degli italiani (8,6 per cento). Qui di seguito un approfondimento del “Corriere della Sera” sulla situazione della disoccupazione giovanile in Italia e negli altri paesi europei e le possibili soluzioni per una ripresa.
Combattere il record di disoccupati: incentivi, detrazioni e più servizi
Di Rita Querzé pubblicato sul Corriere della Sera del 09/01/2012 (scarica l’articolo in pdf)
Il peggio del peggio? Essere donna, ventenne e abitare al Sud. Trovare lavoro in queste condizioni è un’impresa da far tremare i polsi. Perché nel Mezzogiorno, dove la disoccupazione giovanile era a due cifre già prima della crisi, oggi gli under 30 si trovano a spasso nelle piazze, non certo in fabbriche e uffici. Se poi sei una donna, c’è anche la penalizzazione dovuta al «magari prima o poi resterà incinta». E allora la via d’uscita non è nemmeno più il contratto a termine. C’è il nero, se va bene.
Certo, le proposte per dare una sterzata al mercato del lavoro e rimetterlo sulla carreggiata giusta ci sono. Anche se molto diverse tra loro. E dagli effetti difficili da prevedere in un contesto in velocissima evoluzione.
Novembre da dimenticare
Ma consideriamo prima la situazione con cui abbiamo a che fare. Prendiamo i giovani, e in particolare i ragazzi tra i 15 e i 24 anni: il 30,1 per cento è disoccupato. Un dato che in valore assoluto è un’enormità da qualunque parte lo si prenda. Primo punto di vista: il confronto con la disoccupazione media degli italiani. Qui siamo a quota 8,6 per cento. Quella giovanile è quasi quattro volte tanto. La strada del paragone internazionale non aiuta. Perché si scopre che pochissimi stanno peggio di noi se si fa eccezione per, nell’ordine, Irlanda, Grecia a Spagna (le ultime due con tassi di disoccupazione under 25 che superano il 4o per cento).
Gli ultimi dati Istat relativi al mese di novembre hanno registrato un ulteriore peggioramento dell’occupazione giovanile 15-24 anni. Più 0,9 per cento rispetto a ottobre, più 1,8 per cento se il parametro è il novembre di un anno fa. Piove sul bagnato.
Anche quando si parla di lavoro al femminile il rischio piagnisteo è dietro l’angolo. Con un’attenuante. Nella fase iniziale della crisi le donne non se la sono cavata così male. Anzi, a perdere posti sembravano soprattutto gli uomini, in particolare i cinquantenni, mentre le signore mantenevano le posizioni. Ora la diga rosa non tiene più e anche le italiane fanno i conti con il double dip, la doppia recessione. A novembre la disoccupazione femminile ha raggiunto quota 9,9 per cento (contro il 7,6 per cento di quella maschile). Le italiane senza lavoro sono aumentate dello 0,5 per cento rispetto a un anno fa.
Dell’Aringa: «Servizi più efficaci»
«Noi economisti di solito sosteniamo che ritardando la pensione per le fasce d’età più alte, come è avvenuto negli ultimi anni, aumentano le opportunità di lavoro complessive e quindi i giovani non vengono penalizzati. Bene: questa volta le cose stanno andando diversamente», ammette Carlo Dell’Aringa, docente di Economia politica alla Cattolica di Milano (a novembre a un passo dal diventare ministro del Lavoro per il governo Monti). In altre parole: la coperta è corta. Se la si sposta sugli ultracinquantenni, i giovani e le donne restano scoperti con più facilità.
È il caso allora di proporre (sempre che esistano le risorse) incentivi fiscali per chi assume rosa o under 30? «Non direi – risponde il professore -. Presto ci sarà una nuova categoria in difficoltà. Quella dei cinquanta-sessantenni che restano senza lavoro. I nodi di molte crisi iniziate due, tre anni fa stanno arrivando al pettine. Non vorrei che le categorie da agevolare fiscalmente diventassero troppe. Meglio sarebbe puntare su servizi per il lavoro più efficaci in modo da far coincidere meglio domanda e offerta e sfruttare ogni minima opportunità che si crea sul mercato del lavoro. Inoltre si potrebbero creare unità territoriali per affrontare le crisi aziendali più pesanti. Coinvolgendo tutti gli attori locali, dal mondo del credito al sistema delle Camere di commercio».
Tiraboschi: «Nuovo apprendistato»
«Non vorrei che i giovani e le donne diventassero la scusa per passare un colpo di spugna sul nostro diritto del lavoro», si inserisce nel discorso Michele Tiraboschi, direttore del centro Marco Biagi e, fino a pochi mesi fa, collaboratore dell’ex ministro del Welfare, Maurizio Sacconi. Che fa, strizza l’occhio ai difensori dell’articolo 18? «No – risponde il professore – solo la soluzione per i problemi di giovani e donne ce l’abbiamo già in tasca. Si chiama apprendistato così come è stato riformato a settembre. Nei Paesi europei che hanno puntato su questo contratto la disoccupazione giovanile è sotto controllo».
II nuovo apprendistato, però, entrerà in vigore solo il prossimo 25 aprile. «Ecco, questo mi preoccupa – riflette Tiraboschi -. Perché la riforma non resti sulla carta servono regolamenti e intese applicative con le parti sociali». Come dire, il nuovo governo non spazzi via quanto fatto dal precedente. E le donne? «Non credo che gli sgravi fiscali per chi assume rosa servano a qualcosa. Meglio piuttosto incentivare la contrattazione collettiva ad adottare misure che favoriscano la conciliazione».
Garibaldi: «Salario minimo»
Tra gli economisti più in sintonia con il centrosinistra, Tito Boeri e Pietro Garibaldi che, con il senatore Pd Paolo Nerozzi, hanno proposto il Contratto unico di inserimento. «Il Cui sarebbe un aiuto importante – va al punto Garibaldi -. Si semplificherebbe la giungla di formule con cui abbiamo a che fare. E poi si favorirebbe, dopo tre anni, la stabilizzazione di molti giovani e donne. Secondo Garibaldi, però, non è solo, un problema di formule contrattuali. «E anche necessario definire un salario minimo. E per le donne proponiamo un costo fiscale di vantaggio. In sostanza, le detrazioni fiscali per il coniuge a carico andrebbero girate alle imprese che assumono quello dei due (quasi sempre la moglie) che non lavora».