Gemma / #serviziocivile

Un fratello

Gemma - Servizio civile

Gemma cominciò a preoccuparsi per suo fratello Filmon verso le sette e mezzo del pomeriggio.

In realtà all’inizio fu un pensiero passeggero ad attraversarle la mente, quasi un sospiro a cui non dette troppo peso.

Era appena tornata dal suo pomeriggio di lavoro al centro diurno di Sant’Andrea in Percussina dove si occupava di bambini un po’ particolari, che oggi erano vorticosamente scalmanati. Uno in particolare, tale Eusebiu da Braila in Romania, aveva una giornata di quelle che non lasciavano scampo.

«Gemma guardami», le aveva urlato dall’alto di un muro su cui si era arrampicato.

«Scendi giù», gli aveva intimato lei, ma senza ottenere grandi risultati. Alla fine Eusebiu si era gettato sull’albero limitrofo, aggrappandosi ad un ramo e poi scendendo con un salto all’indietro.

Gemma pensò che quel bambino fosse più vicino al mondo delle scimmie che a quello degli umani. A parte lo spavento, però, non era successo nulla.

Una volta a casa, si era fatta una doccia, aveva risposto a qualche mail e sentito per telefono il fidanzato che si trovava a Bologna per lavoro. Ormai le loro conversazioni vertevano esclusivamente sull’imminente matrimonio: l’argomento del giorno era la disposizione dei tavoli, degli ospiti ai tavoli, del colore delle tovaglie sui tavoli e altre facezie che ruotavano intorno al tema tavolo da matrimonio.

La telefonata stava per finire, quando l’occhio le cadde sull’orologio di cucina e fu in quel momento che una sottile preoccupazione l’assalì.

Non era la prima volta che Filmon ritardava: a volte restava a casa di amici e si dimenticava di telefonare, altre succedeva che fosse fuori con qualche ragazzina e perdeva la cognizione del tempo oppure si fermava a cazzeggiare con gli amici in piazzetta, a Tavarnuzze. Insomma Filmon era un adolescente: sedici anni portati con disinvoltura, un’inquietudine invadente e un’imprevedibilità tipica della sua età, mica c’era da spaventarsi se ritardava un po’ e allora perché quel senso di ansia latente, come se gli fosse successo qualcosa?

Forse dipendeva dal fatto che, qualche giorno prima, Filmon aveva visto sua madre, quella vera, quella Etiope, che vive in Inghilterra e che incontra un paio di volte all’anno. A volte era capitato che, nei giorni seguenti all’incontro con sua madre, Filmon ne combinasse una: l’ultima volta aveva addirittura fatto a cazzotti con un compagno di scuola beccandosi una bella sospensione.

Gemma era l’unica della famiglia che aveva fatto caso a questa coincidenza, ma quando ne parlava coi suoi genitori o con Giulio, suo fratello naturale, nessuno le dava troppo peso. Lei invece ci credeva e non aveva tutti i torti…

Alle nove di sera Filmon non era ancora tornato. Al cellulare non rispondeva. A quel punto erano tutti ad essere seriamente preoccupati: babbo, mamma, Giulio e ovviamente Gemma.

La prima cosa che fecero fu telefonare ad un po’ di amici del ragazzo cercando, con tono tranquillo, di strappare qualche informazione su dove potesse essere andato. Le risposte però furono tutte piuttosto evasive. L’unico che dette un indizio più concreto fu il Ruggini, compagno di banco di Filmon all’alberghiero e grande esperto di armi perché aveva il babbo cacciatore che gli aveva trasmesso la passione, anche se ancora essendo minorenne, non poteva nemmeno prendere in mano un fucile.

«Ultimamente si vede con una tipa», buttò lì il Ruggini.
«Come si chiama, lo sai?».
«No. Sta a Firenze… Non è del nostro giro».

Quella fu l’unica informazione di rilievo che ebbero. Forse Filmon era con lei, forse aveva messo in piedi una sorta di fuga d’amore, come era successo ad un compagno di scuola di Giulio che a quindici anni era scappato in Spagna con la sua fidanzatina, creando il panico nelle famiglie.

«E tu pensi che anche Filmon…», disse la mamma con un tono carico d’ansia.
«No mamma, però sai…Ultimamente diceva sempre che gli sarebbe piaciuto andare in Etiopia».
«Ma non dire sciocchezze”, ribatté il padre, “Con che soldi ci va?».

Silenzio. Gemma si mantenne in disparte. Stava pensando: il cervello vorticava come una pala eolica, cercava di ripercorrere a ritroso gli ultimi giorni con Filmon, gli ultimi discorsi fatti insieme, in cerca di qualche dettaglio che potesse aiutare. Ma nulla. Decise di andare ad accendere il suo computer. Sul desktop sempre la solita foto, quella del pratone dei morti a Boboli, ricoperto di neve. «Non lo so perché, ma questa foto mi rilassa», diceva sempre Filmon. Gemma aprì qualche cartella, spulciò l’hard disk in lungo e in largo, ma niente. L’unico cosa che catturò per un attimo la sua attenzione fu un file mp3 di una canzone di De Andrè. Ci cliccò sopra due volte.

Un uomo onesto, un uomo probo, tralalalalla tralallalero, s’innamorò perdutamente d’una che non lo amava niente.
Gli disse portami domani, tralalalalla tralallalero, gli disse portami domani il cuore di tua madre per i miei cani…

Dopo un paio di strofe premette stop e decise di andare a letto.

Quella notte nessuno dei membri della famiglia riuscì a chiudere occhio. La mattina seguente, il babbo si recò alla stazione dei carabinieri per effettuare la denuncia.

«Tanto torna presto», disse Giulio alla sorella mettendole una mano sulla spalla. Lei gli rispose con un sorriso cieco e poi uscì di casa. Prese il motorino e cominciò a girare il paese in lungo e in largo, poi si fermò nella piazzetta dove scorse, seduti sui motorini come d’abitudine, alcuni amici di Filmon. Si fiondò sul Ruggini che ragionava di carabine ad aria compressa: in particolare stava spiegando con dovizia di particolari il funzionamento della Baikal IZH 61, un’arma che anche lui poteva comprare (e lo avrebbe fatto di lì a poco!) perché non necessitava di porto d’armi.
«Vieni con me», gli disse Gemma con decisione, strattonandolo per un braccio e tirandolo giù dal vespino.

Il ragazzo la seguì in un angolo appartato della piazza. Gli altri li osservarono da lontano. Gemma non aveva mai fatto una cosa del genere, era un gesto lontano dalla sua personalità così lieve, così delicata…

In quel momento tutto il suo mondo scomparve, come d’incanto: niente matrimonio, niente volontariato, niente università, niente amiche da una vita, niente che alludesse alla tranquilla vita di provincia di una ragazza con la testa sulle spalle, niente di niente, solo la volontà precisa di ritrovare suo fratello.

«Senti, se lo stai coprendo per qualcosa dimmelo».
«Ma io…», balbettò il Ruggini sorpreso da quell’atteggiamento così deciso.
«Stamani abbiamo fatto la denuncia ai carabinieri…Non è più una ragazzata, lo capisci?».
«Io…».
«Chi è questa figliola con sui si vede?».
«Ti giuro che non lo so…Cioè, te l’ho detto è una di Firenze, mi sa più grande di lui».
«Più grande di quanto?».
«Boh, un paio d’anni».
«Allora la conosci».
«No, me l’ha dette lui ‘ste cose. Ma non so altro, davvero».
«Ascolta se vengo a scoprire che lo stai coprendo, giuro che te la faccio pagare, non so come, ma te la faccio pagare», disse meravigliandosi di saper usare un tono simile e poi concluse: «Tanto lo sai dove abitiamo. Se ti viene in mente qualcosa avvertici subito».

Il ragazzo annuì, intimorito. Lei se ne andò a cercare da altre parti: nel bosco degli Scopeti ad esempio, dove ogni tanto andava col fratello a cercar funghi; si spinse fino al cimitero degli americani e camminò tra le croci bianche in mezzo a quello sconfinato prato verde dove una volta, quando aveva più o meno dieci anni, Filmon le disse che le voleva tanto bene, perché solo lei lo portava in posti “ganzi” come quello. Cercò e cercò ancora, ma nulla. Si fermò anche sul ponte che attraversa il torrente Ema. Guardò giù e s’immaginò il peggio, un peggio fatto di orrore e desolazione e lacrime, tante lacrime, quelle che cominciò a versare silenziosamente.

Quando tornò a casa trovò sua madre con uno sguardo accigliato ad attenderla sulla porta.
«Che hai combinato?», le chiese con aria stanca.

Gemma, di primo acchito, non capì a cosa si riferisse, ma le ci volle un attimo per metterlo a fuoco, giusto il tempo di arrivare in salotto e vedere che seduto sulla poltrona c’era il padre del Ruggini.

Era lì per esigere le sue scuse: «Non si tratta in quel modo un ragazzino. Sei scema per caso?», disse nel suo sproloquio che pareva un’arringa difensiva a favore del figlio.

Gemma trovò insopportabile la boria con cui l’uomo si rivolse a lei, ma era una brava ragazza, non poteva essere cambiata tutta d’un colpo, e le brave ragazze, in quei frangenti, chiedono scusa e promettono di non farlo mai più. La questione sembrava risolta, quando all’improvviso intervenne Giulio, che aveva sentito tutto da camera sua e si scagliò contro il signor Ruggini: «Lei non ha il diritto di trattare così mia sorella, era solo preoccupata per Filmon. Se qui c’è uno scemo non è di certo Gemma…».

Il babbo si coprì la bocca con un mano, abbassò lo sguardo e sbuffò quasi rassegnato. La madre fece finta di nulla. Gemma non fiatò, ma era contenta che il fratello la difendesse in quel modo. Il Ruggini, incredulo e allibito, stava per ribattere, ma il telefono squillò e tutti tacquero. Andò a rispondere la mamma. Dopo qualche secondo rientrò nel soggiorno:

«L’hanno trovato!».

No, non era andato in Etiopia e nemmeno era finito col ventre riverso nelle acque placide dell’Ema: quel pazzo di Filmon aveva passato una notte dentro Boboli, abusivamente, ed era intenzionato a passarcene un’altra… Se il custode non l’avesse scoperto.

Nessuno può dormire dentro Boboli, a meno che non si nasconda in un anfratto recondito per sfuggire alle ronde dei custodi. Era quello che aveva fatto Filmon: addirittura si era costruito una piccola capanna con degli stecchi e delle foglie di quercia. Fu quella primitiva costruzione a insinuare un sospetto nel guardiano. Da lì a fermare il ragazzo e a chiamare i carabinieri il passo fu breve.

Quando Filmon tornò a casa nessuno sapeva bene cosa dirgli. Improvvisarono. Lui dette una spiegazione fugace: «L’ho fatto per una scommessa». Giulio, ironico, chiese: «Almeno l’hai vinta?»; il babbo sbottò: «Sei una fava!»; la mamma domandò retoricamente: «Cosa devo fare con te?», pensando ad una punizione che sarebbe arrivata il giorno dopo. Gemma sapeva che non era quello il momento d’infierire, certa che se avesse aspettato il momento giusto gli avrebbe carpito la verità.

Così fece. La sera, quando tutti erano ormai a dormire, si avvicinò al letto di Filmon e gli chiese: «È stata lei a chiederti di fare quella cazzata, vero?».
Filmon la fissò, smarrito e stupito: «Come fai a saperlo?».
Lei a voce bassissima canticchiò: Un uomo onesto, un uomo probo, tralalalalla tralallalero s’innamorò perdutamente d’una che non lo amava niente…

Filmon annuì e a lei, per un attimo, sembrò di avere davanti non un sedicenne inquieto, ma un bimbo, con il suo pigiamino ben stirato e la copertina di cotone tirata su fino al collo, un bimbo che somigliava a quei ragazzini del centro diurno, quelli che a volte metteva a letto nel pomeriggio implorandoli di fare un sonnellino.

Gemma sorrise e aggiunse per sdrammatizzare: «Meno male che non le hai portato il cuore di tua madre per i suoi cani!».
Anche lui sorrise, ma con un filo di amarezza nello sguardo: «Anche se avessi voluto… Non avrei saputo a quale mamma prendere il cuore».
Ci mancò un attimo, un attimo solo al fatto che delle piccole lacrime uscissero dagli occhi di Gemma, un attimo che però non passò.
Disse: «Buonanotte Filmon».
E lui rispose: «Buonanotte sorella».

 

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