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Lettera a Taranto

Francesca - Servizio civile

Cara Taranto, non posso iniziare chiedendoti come stai, perché lo so. Non te la passi bene, altrimenti io non starei qua a Firenze, a studiare, a vivere, a cercare di acciuffare un po’ di futuro. Mio padre coltiva cozze, mio fratello coltiva cozze, i miei zii coltivano cozze, mio nonno coltivava cozze. Io no. Io ho detto, vado a Firenze a studiare biologia. Eppure tutti gli uomini di famiglia intonavano «dai, fai la biologa marina, così vieni a darci una mano». No, non mi interessa. Le cozze sono filtri e io non voglio essere un filtro. Voglio studiare biologia, ma non per ciò che abita il mare, voglio avere a che fare con ciò che sta sulla terra, con le cellule umane. Poi con quello che è successo, lo vedi anche tu, neanche con le cozze ci si vive sempre e sicuramente. Era stato bloccato tutto per via del veleno di cui sei infestata. Me la ricordo ancora la telefonata di mio padre: «vedi se ti trovi qualcosa, se vuoi continuare a stare a Firenze, perché noi non ce la facciamo». Taranto, non fare finta di non sapere, come sempre. Mi sembra di vederti che giri la testa da un’altra parte. Lo sai cosa è successo a uno dei tuoi due mari o te lo devo rammentare? L’Ilva scarica nel Mar Piccolo e così sono state fermate la produzione e la pesca di pesce e quindi anche di cozze. Non era successo dai tempi del colera, di quando il nonno prese tutta la dozzina di figli e si trasferirono a Milano, in attesa di poter tornare in Puglia a coltivare cozze. «Ora non possiamo più aiutarti», disse mio padre. Un anno fermi senza cozze e io dovevo staccarmi dallo scoglio. Così mi sono messa a cercare qualcosa perché non volevo tornare giù da te. Stavo studiando, stavo crescendo, stavo diventando una persona migliore. Quando su Internet ho trovato il bando del servizio civile, mi ci sono buttata come su una zattera. Mi sono trovata ad aiutare studenti universitari con difficoltà, con disabilità fisiche, sensoriali o mentali, persone in carrozzina, ciechi, sordi, autistici. Mi pare di sentirti. Dici che se devo stare a Firenze per fare questo potrei tornare da te, eterna malata bisognosa di cure? No, aspetta. Non sai quanto ho imparato a stare con loro, hanno altre capacità che io me le sogno e non lo dico perché li compatisco. Anzi, ho imparato una cosa che dovresti stampartela nella testa, all’ingresso della città. Non esiste una cosa che si può fare da soli. Autonomia è una parola che ci inganna. Capaci e incapaci, sani e malati, normali o pazzi o menomati, ricchi e poveri abbiamo sempre bisogno degli altri, autonomi non lo si è mai. L’ho imparato da loro, pensa un po’. Anch’io cercavo in fondo di essere autonoma, dalla famiglia, dagli altri, da te. Pure di te Taranto mia, non posso fare a meno. Mi manca il mare. Mi mancano i tuoi mari. Non sai quanto mi mancano e d’estate appena arrivo li cerco con gli occhi, con la pelle, con i piedi. Però qua a Firenze sono rinata. Sì, nella città del Rinascimento. M’è bastato camminarci un giorno per sentire il mio cuore nato debole e un po’ difettoso, riprendere il giusto ritmo. In tanti mi dicevano che dopo un po’ mi sarebbe passata, che Firenze annoia, che è piccola, provinciale, chiusa. Eppure a distanza di anni, ancora non m’è passata. Qualcuno dice che mi sono innamorata di Firenze, che mi sono presa una cotta, che ti ho tradito così. Ma una madre non si può certo tradire. Ci torno volentieri a prendere un tuo abbraccio, ma poi, lo sai, ho bisogno d’altro, di un altro tipo di amore. Non la buttare sul tema del lavoro e dell’ambiente, non la mettere così facile, non stare al gioco meschino di contrapporli. Non sono scappata solo perché conosco persone malate di leucemia o di cancro per via dei fumi della grande fabbrica o perché non avevo lavoro. Non so se lo sai, ma appena dopo la laurea triennale mi era stato proposto anche un tirocinio all’Ilva. Biologa all’Ilva, ci pensi? Quanti ci avrebbero messo la firma? E se fossi diventata complice? No, non era per me. Invece sai dove sono adesso a fare un tirocinio? Al Meyer, all’ospedale dei bambini qua a Firenze, nel laboratorio insieme alle cellule staminali. Sì, te lo spiego, mi piace raccontarlo. Dunque dal midollo si ricavano queste cellule, si fa ricerca, si sperimenta, si guardano i fattori di crescita con le piastrine. Le cellule staminali sono totipotenti, senti quanto è bella questa parola. Sono cellule che potenzialmente possono fare tutto. Poi sono i geni del DNA che danno ad ognuna una funzione. Quindi una cellula staminale che deve diventare cellula per la pelle avrà attiva la cheratina e disattivate le altre funzioni. Così, via, via le cellule si specializzano e si posizionano. È affascinante, non trovi? Pensa a noi fatti di cellule, quanto è bello, ogni nucleo lavora da sé e senza pensare, eppure il tutto, nell’insieme è armonia e vita. Funziona perfettamente, capisci? Rivaluti il tuo corpo, pensi che sia qualcosa di meraviglioso. Sarà per questo che da quando studio biologia, cerco di usare meno farmaci possibili. Perché dovrei inquinare il mio corpo se quasi sempre ce la può fare da solo? E aspetta senti questa. Se il DNA si inceppa, se una cellula non funziona, si blocca, si confonde, basta, si autodistruggono. Muoiono di apoptosi, di morte programmata. Quello che non funziona deve morire e nel nostro corpo questo succede quotidianamente. Le nostre cellule sono più intelligenti di noi, non credi? No, non è quello che sta succedendo a te. Magari tu avessi cellule che non funzionano e in grado di autodistruggersi! Quando le cellule sono malate muoiono per necrosi. C’è un batterio o c’è un virus che le ha colpite. La sai la differenza? Se c’è un batterio lo puoi distruggere con un antibiotico, ma se c’è un virus ti rimane, non lo uccidi, lo addormenti, magari sta lì latente, ma è sempre attivo. Ecco l’Ilva è un virus. Sì, possiamo addomesticarla, trovare il modo che inquini il meno possibile, ma l’industria che lavora il ferro non è mai pulita. E poi non hai soltanto quella. L’industria del petrolio? Quella del cemento? Ce l’hai presente le tue colonne doriche, quelle di Poseidone? Lì la gente ci butta la spazzatura. Ci sono cellule che non funzionano e non sanno suicidarsi. E le tue cellule sane? Di fronte a casa mia c’è il tempio di Zeus. Erano ripartiti gli scavi, ma poi sono stati chiusi. Ma perché? Non ti chiedi dove finiscano i tuoi anticorpi, le tue difese? Spesso scappano in altre città, in altre regioni, in altri paesi, in altri continenti. La città la fanno i cittadini e ora sei fatta di cittadini stanchi, malati, ricattati.

Lo so, la diagnosi su di te è implacabile. Siamo di fronte a tanti virus e tanti batteri in un corpo solo. Ma la malattia più grave è l’ignoranza. Ci vuole un trapianto, ma devi trovare qualcosa che lo sostituisca, altrimenti che fai? Se togli un organo senza sostituirlo, il corpo muore. No, non sono un medico e neanche un chirurgo, non individuo la malattia e neanche la curo. Sono una biologa, noi analizziamo l’infezione, rintracciamo il batterio o il virus. Sono solo una delle tue innumerevoli figlie, non puoi chiedere una soluzione a me. Ti scrivo perché da un po’ di tempo qua piove e mi manca il sole e il mare.

Un’ultima cosa te la voglio dire. Non avere paura. Sono nata difettosa anch’io. Te l’ho già scritto, ho un cuore debole. Da piccolina sono stata operata a Cagliari e da ragazzina a Torino. Ogni tanto queste valvole vanno riaperte e sono sempre sotto controllo. Abbiamo bisogno degli altri e abbiamo bisogno di prenderci cura di noi e delle nostre relazioni per stare bene. Vale per noi donne e uomini, vale per le città come te.

Cerca di rimetterti.
Presto tornerò ad abbracciarti.

Per sempre tua
Francesca

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