Domenico e Milena / #casa

L'impero di Kristel

Domenico e Milena - Casa

Da oggi mi chiamo Matteu. L’ha deciso Kristel. Me l’ha detto chiaro e tondo prima che uscissi di casa. «Ciao Matteu», mi ha detto e poi Domenico ha acceso la macchina, abbiamo sfrigolato sul ghiaino in retromarcia e abbiamo fatto il tragitto sino alla stazione, ma non come all’andata, un altro tragitto, non fiancheggiando la landa sconfinata d’insegne luminescenti, di gonfaloni aziendali, di cancelli automatici, inferriate, capannoni, una strada diversa, tutta un susseguirsi vertiginoso e marziale di file di pruni, di file di cipressi, di file di magnolie, spezzato a tratti da vasi faraonici, da giare grandi quanto un monolocale, da piante acconciate a forma di Tour Eiffel, di Dinosauri, di Vacche, Puledri e allora m’è tornato in mente quando Milena ha chiesto: «Di che colore è la mucca?». E Kristel ha risposto: «Biale».

Ogni cosa a casa Russi-Lasota ha due parole. E due nomi. Uno in italiano e uno in polacco. A volte ne ha tre, tipo il pappagallo che sta in gabbia accanto alla televisione e che non parla, ha tre nomi. Il primo è, appunto, pappagallo, il secondo è papuga che vuol dire pappagallo in polacco e il terzo è Paputek, che è il nome di battesimo del pappagallo. A Domenico piacerebbe essere Domenico, o babbo. E invece è tata, o ojciec. Non Domenico. Né babbo. Ma tata o ojciec, che vuol dire babbo o papà o padre in polacco. Ci prova, Domenico, a ripetere “babbo” a Kristel, “babbo, babbo, babbo”. Per ora è solo un’inutile manovra dissuasiva, ma un giorno, di certo, Domenico, oltre a Domenico, tata e ojciec, sarà anche babbo.

Per entrare a casa Russi-Lasota ci sono più ingressi. Uno sul retro, uno da una porta finestra laterale e uno dalla porta principale. Dopo aver parcheggiato la macchina sul retro, aver osservato la terrazza di ulivi che, oltre un muro di cemento, s’inerpica sino al cielo, abbiamo aggirato l’edificio, siamo passati davanti al piccolo ritaglio d’erba che fa da belvedere sulle colline toscane, e abbiamo varcato l’uscio principale. Chissà cosa sarebbe successo se fossimo entrati da dietro. A un certo punto, mentre stavo masticando la quarta cotoletta polacca del pranzo e farfugliavo «buona, buonissima, buona davvero» e Domenico precisava «ma lo sai come fa a farle così morbide? Le batte. Sì, sì… le batte… sennò vengon dure… le batte con quell’affare… come si chiama? Il bacchio, quello che si usa per la carne, come si chiama?», in quel momento mentre si stava conversando tutti in italiano, in un italiano interrotto solo a tratti dalle osservazioni di Milena verso Kristel e dai dialoghi fra Kristel e Garfield, ci ho pure pensato: forse ogni ingresso ha una sua lingua nazionale e se fossimo entrati dalla porta sul retro adesso anch’io e Domenico parleremmo un irreprensibile polacco con qualche lieve inserzione nell’italiano e invece siamo entrati da davanti e quindi parliamo prevalentemente in italiano.

Alle nostre spalle Garfield, ha una pancia enorme e la bocca cucita. E non ciunciona. «Non ciunciona» lo dice Kristel che è la governatrice indiscussa della sala da pranzo e della casa in genere e può dire un po’ quel che le pare, ci mancherebbe altro. Garfield non ciunciona perché ha la bocca cucita, ma osserva tutti con lo stomaco gonfio e l’occhio sghembo, accucciato in una smorfia da eterno dopopranzo, e menomale che non parla pure Garfield altrimenti, qui a Quarrata, su queste colline tappezzate d’ulivi che dominano la capitale dei mobili, dovremmo pure districarci fra fusa e miagolii. La casa di Domenico e Milena è, prima di essere la casa di Milena e Domenico, il regno di Kristel. Sono sue le cose, da queste parti. Le cose, le parole, i divani, i libri che fanno da pavimento, il tavolo della sala da pranzo e Kristel ne dispone a suo piacimento, saltando dal divano al tavolo senza toccare terra, saltando dal tavolo a una sedia, saltando. «Fruzzica, eh?», dice Domenico mentre Kristel sgambetta dalla sedia sulle spalle di Milena. «Bada come fruzzica», ripete e brilla di gioia, persino gli anelli alle dita e la collana e l’orecchino gli prendono fuoco quando parla della figlia. Nei rari momenti in cui Kristel smette di fruzzicare la casa diventa una conca taciturna, attraversata occasionalmente da trattenuti colpi di tosse o da sussurri bassi, bassissimi, perché pure il tempo è competenza di Kristel a Quarrata. Soprattutto il tempo. Si mangia quando decide lei, si dorme ai suoi orari e tutti cheti, nessuno che s’azzardi a drizzare un ditino costernato o a muovere un’obiezione. Se Kristel dorme l’audio della televisione s’abbassa, e pure Paputek smette di ciangottare. Ma non è sempre stato così. C’è stato un tempo in cui l’impero di Kristel non esisteva ancora, Milena abitava a Katowice e Domenico stava ad Agliana.

Per mettere insieme la storia della famiglia Russi-Lasota bisogna tener conto di una quantità di luoghi, viaggi, ritorni, parole bifronti, traslochi, e assemblarle. Ci sono i nomi delle città, innanzitutto. Taranto, da dove il padre di Domenico partì, più di vent’anni fa per fare un concorso per camini in Toscana, sì, un concorso per chi riusciva a fare il camino più bello, e lo vinse, fece il camino più bello e così si trasferì in Centro Italia portando avanti un’odissea da pendolare per qualche mese, sino a quando non si risolse a portare tutta la famiglia su e a sistemarsi ad Agliana. Domenico aveva meno di dieci anni. Anche Milena, a migliaia di chilometri di distanza, aveva più o meno la stessa età. E ci sono le date. Nel 2005 Milena ha conosciuto Domenico. Domenico andò in Polonia a fare le vacanze, giusto il tempo per conoscersi e salutarsi. Per un po’ si sentirono a distanza e poi basta. Ognuno tornò a parlare la sua lingua, nel suo paese, nella sua città. Domenico ad Agliana. Milena a Katowice, col suo fratello gemello, perché ogni cosa, in casa Lasota-Russi ha due nomi, due facce, due declinazioni differenti e anche Milena ha il suo doppio. Non si sa come e non si sa perché, ma Milena, un giorno, sbarcò ad Arezzo. Era il 2009. Venne in Italia a lavorare in un bar e anche Domenico, quando seppe la notizia, deve aver pensato “non so come e non so perché, ma Milena s’è trasferita ad Arezzo e sai che? Ci vo’ di filato, a trovarla”, e probabilmente l’ha pensato tutte le volte che faceva 100 chilometri a andare e cento a tornare, giusto per farci due chiacchiere, da Agliana a Arezzo e poi da Arezzo a Agliana. «C’ho finito le gomme», dice. Però nel 2009 si sono fidanzati e poi sposati e due anni dopo è nata Kristel. Non potendosi permettere una casa tutta loro, i primi tempi sono rimasti dai genitori di Domenico. In quella casa stavano bene. C’erano tutti e c’era di tutto. C’erano tanti ricordi, e c’era pure il vecchio pianoforte che aveva Domenico dai tempi del conservatorio. Però stavano stretti e Kristel stava crescendo.

«Mah, me lo disse una mia collega… ma per caso, eh?», dice Domenico rigirando una mucca fra le mani. «Io stavo già cercando casa di mio… Però con la crisi… il casino che c’è ora… poi arriva questa mia collega e mi dice: guarda questo».

Siamo sul divano. Sul tavolo sono svanite le cotolette alla polacca e adesso fumano due tazze di caffè. Sopra la testa di Papuga una colonia di pesci rossi turbina silenziosa nell’acquario. «Poi sono stato… non so quanto, ma parecchio, eh? Parecchio. Un rigirio che non ti dico… Sarò stato dei mesi a compilare, ma settimane, eh? Spedire, ricompilare, cancellare moduli… e non andava bene quello e non andava bene questo… e alla fine comunque hanno accettato la richiesta e allora mi sono messo a cercar casa…».

Domenico ha partecipato a un bando istituito dalla Regione Toscana per sostenere i giovani che vogliono trasferirsi dalla casa dei propri genitori e trovare una propria autonomia e adesso, per tre anni, la Regione gli pagherà metà dell’affitto della nuova sistemazione, o meglio della casa di Kristel dove al posto del vecchio pianoforte ci sono migliaia di giochi e c’è una pianola, una tastiera musicale per bambini che Kristel usa quando si è stufata di Garfield e degli altri e che poi abbandona quando si è stufata pure di suonare.

«Ce ne sono di giochi, eh?», dico battendo uno scontrino su una cassa da supermercato.
«Parecchi. Ma ce l’ho anch’io, eh, che credi?», chiarisce Domenico.
«Cosa?».
«Ora, purtroppo è scarica… sennò altroché!».
«Scarica cosa?».

Domenico si alza. Sinora ha sempre parlato chiaro. Senza fronzoli. È sempre andato dritto al punto. Adesso non dice. Aggira il tavolo del salotto, lentamente, pregustando chissà cosa.

«Ne presi due. Uno per me e uno per il mio capo», accenna prima di allungare il braccio dietro l’acquario in un gesto di impensabile mistero. «Sì, è stata l’ultima che andai in Cina», conclude.

Da Taranto a Agliana, da Agliana a Katowice, da Katowice ad Arezzo, da Arezzo a Quarrata, e da Quarrata alla Cina. Domenico di lavoro cerca pezzi per mobili in giro per il mondo. Non costruisce. Non sino in fondo. Assembla parti, districandosi fra leve, plexiglas e braccioli, montando e smontando poltrone shiatsu, divani. Fra qualche giorno partirà nuovamente per la Cina. L’ultima volta, assieme a un numero imprecisato di materiali e di componenti per mobili, tornò con due elicotteri telecomandati. E uno di questi due, adesso, lo sta brandendo in aria manco fosse un’alabarda. Domenico è giovane – non ha ancora trent’anni – ma adesso pare ringiovanito di trent’anni e aggeggia col telecomando e pigia pulsanti a raffica e sghignazza e sbuffa.

«Gliel’ho prestate al mio capo, le batterie», si lamenta.
«Anche del tuo?».
«Anche del mio, sì, sì. Accidenta’ me! Sennò ora lo vedevi come volava. Petta, aspetta…», Domenico preme una leva e l’elicottero ha un sussulto, uno solo e poi ricade a terra. «Comunque hai visto. Ce l’ho anch’io un paio di giochi…».
«Ehi? Sono qui!», dice una voce. Non sembra quella di Domenico. È più sottile, quasi femminile.
«Cosa?», chiedo.
«Cosa che?». Milena è di là con Kristel e in salotto siamo solo io, Domenico e Papuga.
«Ma il pappagallo non parla?», chiedo.
«No. Non parla».
«Mah… mi era sembrato avessi detto qualcosa».
«Ho detto che anch’io ho un paio di giochi. Ti faccio vedere la casa ora, che dici?».

La casa che Milena e Domenico hanno preso in affitto è la porzione di un villino. Originariamente era la casa-lavoro di un artigiano. Adesso è stata frazionata e ci stanno più famiglie. Negli appartamenti di fianco e pure nelle mansarde, dove c’è un ricambio continuo, di operai, studenti, lavoratori. Le mansarde non possono essere affittate per più di tre mesi alla volta, anche se sono bellissime e spaziose, «l’avrei presa volentieri una di quelle…», dice Domenico. Ciononostante gli appartamenti al piano terra sono abbastanza grandi. In quello della famiglia Russi-Lasota c’è il salotto, due stanze, la cucina e il bagno. Le tracce della coppia – le foto appese ai muri, vestiti, calendari, souvenir – si perdono e svaniscono di fronte all’immensa mole di tricicli, formine, pupazzi che Kristel dissemina ovunque.

«Fra un po’ andrà all’asilo e io cercherò un lavoro», dice Milena indicando la figlia che sta guardando la televisione. «Che fai, ti sei dimenticato di me?», aggiunge. O almeno mi pare. Sì, perché la voce era leggermente diversa, più metallica, singhiozzante. Forse è stata Kristel. Forse me la sono figurata io. Mi guardo la punta delle scarpe, sorridendo con lieve imbarazzo. Poi tento:

«Hai detto qualcosa?».
«Ho detto che devo trovare lavoro».
«E poi?».
«Niente».
«Sicura?».
«Sì».
«Sicura sicura?».

A casa Russi-Lasota ogni cosa ha la sua lingua. E persino gli oggetti parlano. Se dimentichi la tastiera accesa per troppo tempo, per esempio, questa comincia a far le bizze e s’agita e reclama attenzioni.

«Dev’essere stato quel coso…», suggerisce Domenico.
«Quel… cosa?», chiedo.
«La pianola. Sentila».
«Allora? Sono qui…», fa eco dal salotto la pianola.
«Vado a spengerla, vai», dice Domenico.
«Poi si va, che è tardi».

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