L’importanza dell'acqua
Niccolò
Deserto della Sierra Madre Oriental, Messico, 26 aprile 2012, ore 20.05
Una palla di fuoco rossa, venata di giallo, scende lentamente sotto la linea dell’orizzonte. Un monolite di roccia dura troneggia nel vuoto e sembra un Cesna a due posti, pronto a decollare da una pista fatta di arbusti e sterpaglie. Il silenzio accartoccia l’aria. Gli occhi sono rivolti al cielo che s’imbrunisce tra mille striature limbiche. Una lucertola dal dorso gibboso sguscia verso la base del cactus e si perde in una nuvoletta di polvere e terra. Niccolò ha il naso che respira lento, da steso che era si alza, la schiena eretta, si siede incrociando le gambe. Accanto a lui lo sguardo incerto di un messicano bolso, che pare sproloquiare: «Cielito índigo perdoname! Que Dios salve este pecador». Silvia non riesce più a stare seduta: «Niccolò io vado a fare due passi», gli dice e non dà adito a risposte. Si solleva di scatto, s’incammina verso il nulla. «I crotali», urla Niccolò, «i crotali Silvia». Ma lei non lo può sentire, è lontana ormai. I crotali velenosi a quanto pare non le fanno paura. Niccolò la vede sparire all’orizzonte. Tornerà, pensa, e taglia con un piccolo coltello un altro spicchio di mela. Stanno tutti aspettando che arrivi l’ora (subito dopo il calar del sole) per interpellare l’abuelito1. È una specie di oracolo, tu lo interroghi e lui, come dicono i messicani: «De alguna manera contesta»2. Se hai un dubbio l’abuelito lo risolve.
Pare faccia sempre prendere la decisione giusta.
Quale sarà la mia decisione?, si chiede Niccolò.
Un altro messicano, più flaco e amico del bolso, se ne sta silente in disparte e beve acqua fresca da una borraccia. Niccolò, per un minuto, s’incanta a guardarlo, ondeggiando leggermente col busto…
Montreal, Canada, 18 aprile 2012, ore 15.26
Il professor Pepper non è un tipo molto socievole. Ti guarda poco, da dietro i suoi occhiali spessi. Indossa una giacca di velluto lisa, quasi usurata e non emette un buon odore.
«Questi sono i laboratori», dice a Niccolò mentre apre la porta bianca di un prefabbricato. Si scorgono alcune persone, in camice, bianco anch’esso. Trasmettono un senso di quiete. Sembrano esseri umani educati, rispettosi di un’etichetta dettata dalla consuetudine, dal senso del rispetto reciproco e dal protocollo scientifico. Una ragazza riconosce Niccolò e lo saluta con un tiepido sorriso. È Clara, una spagnola che ha studiato con lui a Città del Messico e che da un paio d’anni si è trasferita in Canada. Niccolò la ricorda una sera, in un locale vicino a Plaza Garibaldi, mentre si faceva passare la scossa elettrica da uno sconosciuto che teneva in mano un piccolo diodo e urlava: «Yo soy la luz»3.
Escono. Il professore gli mostra in successione: il punto ristoro, la sala mensa, altri tre laboratori, la biblioteca e il piccolo parco annesso alla struttura.
Studiare la chimica dell’acqua di una riserva sotterranea del Quebec, quella che poi dovrebbero bere i canadesi francofoni ed anche lui, se si trasferisse lì. Lo stipendio non è male. Il sogno di tanti idrogeologi, gli ha detto qualcuno.
«Se accetta, comincerebbe dalla prossima settimana».
«Così presto?», sbotta Niccolò sgranando leggermente gli occhi.
Il professor Pepper annuisce. Il tanfo accanto a lui è veramente insopportabile.
Lupembe, Tanzania, 09 giugno 2009, ore 12.13
‘Nguru lo guarda con i suoi occhi bianchi. Niccolò non sa proprio come aiutarlo. Il bimbo si è fatto un taglio alla mano, giocando con un bastone di legno acuminato, perde sangue, andrebbe lavato per lo meno, ma in quel momento l’acqua non c’è. Oggi è giorno di pranzo collettivo e quasi tutta l’acqua del pozzo è stata usata per cucinare. Non era proprio previsto che ‘Nguru si facesse male. «Sei un bel torsolo», gli dice Niccolò, «te l’avevo detto di lasciar stare i bastoni e anche i sassi». Poi gli scappa da ridere perché pensa che la parola torsolo associata alla faccia gonfia e morbida di ‘Nguru ci sta proprio bene.
«Cos’è torsolo?», chiede il bambino in un inglese stentato.
«Lascia stare», gli risponde Niccolò mentre lo fascia con uno straccio che ha trovato vicino all’ingresso di una casupola di argilla.
«Dobbiamo andare alla mensa, lì troveremo qualcosa per disinfettarti».
Quando arrivano le facce degli altri sono lunghe, tirate, qualcuna sudicia di rabbia.
«Akili non ce l’ha fatta», gli dice un altro volontario mettendogli una mano sulla spalla. A Niccolò viene spontaneo guardare subito ‘Nguru. Akili era suo padre. La malaria se l’è portato via…
Città del Messico, Messico, 22 aprile 2012, ore 14.08
Silvia butta giù un sorso d’acqua e dà un morso alla sua tortilla.
Mastica e parla:
«L’amico di Ray oggi è venuto a casa».
«Cosa ti ha detto?».
«Mi ha lasciato la mappa».
«Davvero? E com’è?».
«Non lo so. Forse tu ci capisci più di me. È tutta incasinata, l’ha fatta sopra la cartaccia di un’empanada».
«Ce l’hai qui?».
«No. È a casa».
Niccolò si butta con la schiena all’indietro. Il traffico è un serpente mastodontico che si snoda per la città. Suoni. Bagliori. Un cameriere gli porta al tavolo una lata de coca.
«Che hai intenzione di fare allora col Canada?», gli chiede Silvia.
Niccolò si sfiora la barba mal fatta: «Voglio chiedere consiglio all’abuelito, mi accompagni?».
Lei sorride e le fossette sulle gote si fanno più profonde: «Certo».
Estación Catorce, Messico, 24 aprile 2012, ore 16.16
La mappa parla chiaro. Da San Luis Potosì a Estación Catorce. Da lì bisogna raggiungere il quarantaquattresimo poste, ovvero il palo della luce che apre la via al deserto.
Un ragazzo con un pick up zeppo di damigiane d’acqua dà loro un passaggio fino al poste. Lui deve proseguire per Ciudad Victoria. Niccolò e Silvia scendono, lo ringraziano e si mettono seduti accanto al palo. Sfogliano la mappa. Il loro obiettivo è trovare Don Luis, un indio Huichol che li porterà nella terra dell’abuelito.
«Dal poste sono dieci chilometri verso le due colline», fa Niccolò. Silvia si mette in cammino. Lei è una di poche parole.
Dopo un’ora i due cominciano a essere un po’ stanchi.
«Come sarà Don Luis?», gli chiede Silvia.
«Ray dice che parla poco, che mangia crotali e nopales a colazione e si fa chiamare el jefe del desierto».
«A me fa un po’ paura», chiosa Silvia.
Niccolò sorride. Comincia a piovere. Uno spruzzo da una nuvola rabbiosa: merce rara da queste parti. Hanno ormai passato i dieci chilometri e di Don Luis nessuna traccia. In compenso un arcobaleno fa capolino da dietro una collinetta.
«Non è che ci siamo persi?», chiede Silvia vedendo il cielo avviarsi al bruno. Niccolò l’abbraccia forte: «Ascolta».
Nel silenzio metafisico del deserto si distingue il rumore balbettante di un motore.
«Secondo me loro ci possono aiutare», aggiunge Niccolò indicando un furgone scassato che avanza nel nulla.
Ha ragione: il guidatore è il figlio di Don Luis.
Missione compiuta.
Deserto della Sierra Madre Oriental, Messico, 27 aprile 2012, ore 02.25
«…L’acqua copre circa il 75% della superficie terrestre, ma la maggior parte di essa è troppo salata per essere utilizzata dall’uomo per fini alimentari o agricoli. Solo il 2,5% dell’acqua, in tutto il mondo non è salata, e la maggior parte di quest’acqua si trova ai Poli o nei ghiacciai ed è, quindi, inutilizzabile. Al momento, quasi un miliardo di persone sono prive di accesso a fonti di acqua pulita; praticamente il 33% della popolazione mondiale non ha accesso all’acqua potabile. Ora mi spieghi perché io dovrei andare a cercare l’acqua in un paese come il Canada dove non c’è una persona, una cazzo di singola persona, che muore di sete? Me lo dici?».
Il messicano bolso fissa Niccolò con il suo sguardo da ebete, mastica una radice di zenzero e non sembra aver capito una parola di quello che gli ha detto. Si alza in piedi, sorride e poi si fionda verso un piccolo cactus abbracciandolo con tutta la forza che ha e pienando il suo pingue corpo di spine, come fosse un guanciale per aghi. Ma non urla. Il dolore non è in questo momento un suo problema. Chissà cosa s’è preso, pensa Niccolò e non sa se ridere o piangere.
L’altro messicano, il flaco, che sembrava stesse dormendo, si avvicina a lui.
«Escuchaste bien al abuelito?»4.
Silvia dorme ancora, russa quasi. Il fuoco brucia alto in mezzo a loro. Niccolò butta un’occhiata verso l’abuelito, ovvero il grande cactus saguaro che sta lì, inerme, ieratico, a trenta metri dal loro accampamento. Poi torna a guardare il flaco: «Seguro, ma…».
L’altro lo interrompe: «Está claro que te ha dicho que no vuelvas a Canadá. Vete a África o a Nicaragua, que allí tienen siempre un montón de problemas con el agua, pero no chingues con tus dudas. Aquí queremos estar tranquilos!»5.
Detto questo ritorna vicino alla sua coperta di lana grezza e si corica. Niccolò, dopo un attimo di necessario smarrimento, si rannicchia vicino a Silvia, accanto al fuoco, e pensa che vorrebbe tanto essere un eroe per salvare il mondo, ridare l’acqua a chi non ce l’ha, i soldi a chi non ce l’ha, il cibo a chi non ce l’ha, la dignità a chi l’ha perduta, mentre il suo sguardo finisce sul messicano bolso, che è in terra, pieno di spine, dorme per la grossa, continua a non sentire dolore. Lo fissa, quasi sorride, un sorriso con dentro una punta di tenerezza. Sono un eroe fatto di zenzero e acqua, pensa, ma pur sempre un eroe.
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1 Nonnetto.
2 In qualche modo risponde.
3 «Io sono la luce».
4 Hai ascoltato bene l’abuelito?
5 È chiaro che ti ha detto di non tornare in Canada. Vai in Africa o in Nicaragua che lì i contadini hanno sempre un sacco di problemi con l’acqua, ma non rompere le palle con i tuoi dubbi, che qui vogliamo stare tranquilli.