Il progetto della Regione Toscana per l’autonomia dei giovani

In Italia ci sono sette milioni di giovani tra i 18 e i 34 anni che vivono ancora in famiglia: nei giorni scorsi il quotidiano La Repubblica ha pubblicato un interessante approfondimento su quella che gli inglesi chiamano «generation rent», generazione affitto.

Di seguito pubblichiamo i testi dei due articoli usciti lo scorso primo giugno, titolati ‘Per sempre in affitto – quei giovani che non compreranno mai casa e ‘Per sempre in affitto – tutti i trucchi per cavarsela senza papà’.

Per sempre in affitto – quei giovani che non compreranno mai casa scarica articolo in pdf
articolo di Maria Novella De Luca pubblicato su La Repubblica del 01/06/2011

La casa di proprietà? Sogno impossibile, privilegio di pochi, desiderio di molti, nella realtà una sfida perduta. Almeno per chi ha 30 anni, un lavoro precario, amici precari, genitori in affanno e nonni con le pensioni desertificate a furia di aiutare figli e nipoti. Gli inglesi la chiamano «generation rent», generazione affitto, e non è più soltanto una metafora per indicare i ragazzi della Rete, oggi giovani adulti che del nomadismo e della flessibilità hanno dovuto fare il loro stile di vita. No, la generazione “rent” (20-45 anni) è quella che davvero le case non le comprerà più, non le possederà più, che non avrà più il capitale neppure minimo per stabilizzare le proprie radici, come scrivevano ieri mattina molti quotidiani inglesi, a cominciare dal Guardian. È il mondo di chi già ora vive in affitto, coabita, fa crescere l e comunità di cohousing, universitari, coppie, ma anche neo-famiglie e, a sorpresa, sempre più professionisti all’inizio della carriera. Ma tra questi c’è anche chi la casa l’ha perduta.

Perché incapace di rispettare mutui e impegni stipulati prima della crisi, quando magari il lavoro c’era e anche un po’ di risparmi accantonati con fatica giorno dopo giorno. Tutto bruciato. La “generazione rent” dicono gli economisti sta portando ad un cambiamento radicale del concetto di proprietà, un problema europeo ma anche molto italiano. Infatti. L’Italia è il paese dei piccoli proprietari (74% delle famiglie possiede le “quattro mura”) ce l’hanno fatta anche i baby boomers a comprarsi una casa, adesso però il sogno è finito, per i figli la strada sarà ardua, come dimostra un recentissimo studio firmato dalla Cgil e dal Sunia, il Sindacato Nazionale degli Inquilini, dal titolo emblematico «La casa nel percorso di autonomia delle nuove generazioni».

Partendo da alcuni numeri fondamentali: nel nostro paese ci sono 7milioni di giovani tra i 18 e i 34 anni che vivono ancora in famiglia. Il 60% di questi percepisce un reddito mensile inferiore ai mille euro. E i cosiddetti «milleuristi», secondo una proiezione dell’Università Cattolica di Milano, saranno nei prossimi anni almeno 15 milioni di famiglie. «E se teniamo conto che l’affitto medio di un trilocale nella zona semicentrale di una grande città, non e inferiore ai 1100 euro al mese, e che in 10 anni il costo delle case è aumentato del cento per cento – spiega Laura Mariani, responsabile delle Politiche Ahitative della Cgil – si capisce come per un’enorme fetta della popolazione non solo l’acquisto, ma anche l’affitto, siano diventati una sfida impossibile»,

Con l’aggravante che per gli italiani la casa è famiglia, cultura, radici, legame antropologico con le origini. Per questo la “generazione rent” nel nostro paese rischia di pagare un prezzo più alto che altrove. «Sia per un affitto che per stipulare un mutuo si chiedono garanzie ormai impossibili per oltre il 60% della popolazione, in particolare i giovani, che hanno redditi incerti e lavori precari. Il mondo è cambiato – afferma Laura Mariani – ma sia i proprietari degli appartamenti che gli istituti di credito si comportano come se fossimo ancora nell’Italia del posto fisso… Per uscire da questa morsa, che costringe i giovani a restare in casa ben oltre l’età adulta o fa precipitare le famiglie sotto la soglia di povertà perché strozzate dai canoni di locazione, si deve rilanciare l’edilizia sociale, quella delle cooperative, dei prezzi equi. Ma anche per le case popolari si è passati dai 35mila alloggi del 1985 ai 2000 di oggi, mentre le domande degli aventi diritto sono oltre 600mila».

E se è vero che i ragazzi italiani sono un pò più familisti dei loro coetanei nordeuropei, è vero anche che l’83% dei giovani che vivono in famiglia vorrebbe andarsene al più presto. Perché? Desiderio di indipendenza economica, voglia di sposarsi o convivere, spinta al misurarsi da soli con la vita. «Ma la rigidità del mercato immobiliare – aggiunge il demografo Alessandro Rosina, che al tema del “blocco” dei giovani ha dedicato più di uno studio – fa sì che nel nostro paese anche la “generazione rent”, che potrebbe trovare lavoro muovendosi, spostandosi, accettando incarichi e contratti lontano da casa, non può cogliere queste occasioni perché i salari sono troppo bassi rispetto agli affitti». Si calcola infatti che per poter affrontare un canone da 1000 euro al mese, se ne dovrebbero guadagnare 2500 per non finire sul limite dell’indigenza. «Per noi – dice ancora Rosina – entrare nell’ era in cui la casa non è per sempre è davvero uno strappo culturale, a cui trentenni non sono preparati. Sono figli di una tradizione familiare dove fino a 15 anni fa il percorso preordinato prevedeva lavoro sicuro, matrimonio e casa di proprietà, magari con diversi decenni di mutuo. Caduta però la rete di protezione di nonni e genitori, e senza un welfare pubblico di supporto, i giovani adulti si sentono in uno stato di fragilità che li porta a posticipare tutto: convivenze, figli, l’età adulta insomma».

Addio al mattone dunque? A giudicare dalla nuova corsa selvaggia all’edificazione che in pochi anni ha stravolto molte periferie urbane, sembra di no. Manon saranno certo quei 15 milioni di persone con mille euro al mese di stipendio, a potersi permettere i nuovi condomini chiavi in mano degli hinterland metropolitani. Eppure, aggiunge il sociologo Vanni Codeluppi, dentro questa “generazione reni” ci sono frammenti e fermenti di cambiamento. «E’vero, l’impoverimento della classe media ha generato per i ragazzi un modo di vita assai meno sicuro di quello dei loro genitori. Ma le soluzioni – ipotizza Codeluppi – sono in sintonia con l’idea di flessibilità e nomadismo che è propria di un mondo giovanile che con l’incertezza sa di dover convivere. Spartire un affitto, coabitare, vuol dire mescolare esperienze, non essere chiusi, in fondo è la stessa globalizzazione della Rete».

In effetti in tutto il Nord Europa come negli Stati Uniti, il cohousing e una realtà consolidata, un modo di fare famiglia tra le categorie più diverse, gli anziani, le mamme sole, nuclei familiari che si aiutano tra di loro. E diverse “comunità abitative” sono nate a Milano, in Piemonte, in Emilia Romagna, sia come condivisione affitti, che come veri e propri gruppi d’acquisto di case-villaggio. Mentre sono attivissimi i siti che propongono agli studenti e ai giovani lavoratori appartamenti in cui abitare in più persone, piccole tribù che si incontrano sul web. Basta scorrere “Easystanza” o “Coinquilini.it”, dove sul modello del francese “Colocation” (130 mila richieste al giorno), o il britannico “Easyroommate” (due milioni e 700mila giovani iscritti), migliaia di studenti hanno trovato casa, scegliendo però i coinquilini attraverso dettagliate schede, dove si precisa, anche, l’orientamento sessuale.

«La famiglia d’origine – conclude Codeluppi – è un porto sicuro, ma poi bisogna andare via, spiccare il volo. Ë troppo importante per la formazione di un giovane, ed è davvero punitiva questa resistenza del mercato che blocca il desiderio di autonomia. Ê però vero che in Italia c’è bisogno di un salto culturale, spesso sono i genitori stessi a non spingere i ragazzi fuori. Ma la famiglia nido è un modello in crisi, e non soltanto per fattori economici, a giudicare dal numero delle separazioni e dei divorzi: in realtà, come affermano alcune teorie, le società occidentali avanzate si stanno tribalizzando, nel senso di una vita a gruppi, dove ciò che conta sono i legami tra soggetti, tra individui, non per forza uniti dai legami di sangue».

Per sempre in affitto – tutti i trucchi per cavarsela senza papà scarica articolo in pdf
articolo di Franco La Cecla pubblicato su La Repubblica del 01/06/2011

Ana Bacalhao è una simpatica pienotta cantante portoghese di Fado, con una bellissima voce. Da quando con il suo complesso che si chiama Deolinda ha Intonato tre mesi fa una canzone che parla della condizione giovanile è diventata la bandiera di tutte le manifestazioni del precariato portoghese. La canzone si chiana “Que parva que eu sou”, “Che stupida che sono”, e dice “io faccio parte della generazione della “Casa des pais”, della generazione che vive a casa con i genitori, “vorrei avere un marito, dei figli e invece pago le rate della utilitaria e mi trovo a pensare di essere una stupida ch e per fare la schiava ha dovuto studiare”.

La magnificenza della canzone è la sua mitezza melodica. E il fatto che in essa si sono identificati i giovani portoghesi che al pari dei greci, dei francesi e degli italiani si sono accorti di essere una minoranza senza diritti, quella minoranza su cui banche e governi stanno scaricando la crisi.

La differenza con l’Italia è che da noi i giovani non sono ancora scoppiati come dovrebbero, sono ancora illusi da un potere che promette loro cali center e co-co-co. Il sogno di un appartamento proprio, da comprare, ma anche solo da affittare è lontanissimo. Vivono, dicono le statistiche, fino a 35 anni nella “casa di papà”, con i genitori che “considerano la cosa normale”. Tanto normale non è ovviamente pur sapendo che il modello mediterraneo della famiglia allargata prevede una relazione costante, edipica, cianica. Però manca davvero la possibilità di pensare ad un futuro diverso. Con la disoccupazione giovanile più alta d’Europa l’Italia è un paese che sfrutta e delude i giovani, li frustra e mostra loro un modello dove per fare un lavoro di responsabilità occorre farsi corrompere dai vecchi al potere e assumere le loro logiche. Ci si augura che i giovani in Italia si rendano conto al pari dei loro coetanei europei di essere davvero una “classe” di emarginati, di drop-out, una classe che rappresenta quel precariato intellettuale che ha studiato inutilmente e che deve invece formare un “knowledge liberation front”, un fronte della liberazione della conoscenza, – così si chiamano in tutta Europa i movimenti che rivendicano ai giovani un posto nella società. Ovviamente nulla sarà regalato inutile aspettare un piano di edilizia popolare peri giovani, mentre invece ci sono strumenti di lotta e di rete che somigliano a quello che avviene in twitter e facebook. La mia amica Serena ventiseienne paga l’affitto della casa in cui vive a Roma avendo trasformato il suo appartamento in bed e breakfast, una soluzione geniale per essere autonoma e per non dover vivere alle spalle dei genitori o di un uomo. Ma ci sono altre ingegnosità, dal co-housing, alle reti di solidarietà tra amici.

La città deve essere una risorsa per i giovani, deve essere un luogo utilizzabile senza dover spendere buona parte dei propri magri proventi per un letto e senza dover ricadere nel modello figliol prodigo che torna comunque dopo ogni delusione di lavoro e di studio nell’alveo familiare. Anche perché i giovani italiani sono vittime soprattutto dei loro genitori che hanno creato un mondo fin troppo statico, realista, nostalgico -a sinistra nel migliore dei casi – e incapace di rinnovarsi.

La casa di proprietà? Sogno impossibile, privilegio di pochi, desiderio di molti, nella realtà una sfida perduta. Almeno per chi ha 30 anni, un lavoro precario, amici precari, genitori in affanno e nonni con le pensioni desertificate a furia di aiutare figli e nipoti. Gli inglesi la chiamano «generation rent», generazione affitto, e non è più soltanto una metafora per indicare i ragazzi della Rete, oggi giovani adulti che del nomadismo e della flessibilità hanno dovuto fare il loro stile di vita. No, la generazione “rent” (20-45 anni) è quella che davvero le case non le comprerà più, non le possederà più, che non avrà più il capitale neppure minimo per stabilizzare le proprie radici, come scrivevano ieri mattina molti quotidiani inglesi, a cominciare dal Guardian. È il mondo di chi già ora vive in affitto, coabita, fa crescere l e comunità di cohousing, universitari, coppie, ma anche neo-famiglie e, a sorpresa, sempre più professionisti all’inizio della carriera. Ma tra questi c’è anche chi la casa l’ha perduta.

Perché incapace di rispettare mutui e impegni stipulati prima della crisi, quando magari il lavoro c’era e anche un po’ di risparmi accantonati con fatica giorno dopo giorno. Tutto bruciato. La “generazione rent” dicono gli economisti sta portando ad un cambiamento radicale del concetto di proprietà, un problema europeo ma anche molto italiano. Infatti. L’Italia è il paese dei piccoli proprietari (74% delle famiglie possiede le “quattro mura”) ce l’hanno fatta anche i baby boomers a comprarsi una casa, adesso però il sogno è finito, per i figli la strada sarà ardua, come dimostra un recentissimo studio firmato dalla Cgil e dal Sunia, il Sindacato Nazionale degli Inquilini, dal titolo emblematico «La casa nel percorso di autonomia delle nuove generazioni».

Partendo da alcuni numeri fondamentali: nel nostro paese ci sono 7milioni di giovani tra i 18 e i 34 anni che vivono ancora in famiglia. Il 60% di questi percepisce un reddito mensile inferiore ai mille euro. E i cosiddetti «milleuristi», secondo una proiezione dell’Università Cattolica di Milano, saranno nei prossimi anni almeno 15 milioni di famiglie. «E se teniamo conto che l’affitto medio di un trilocale nella zona semicentrale di una grande città, non e inferiore ai 1100 euro al mese, e che in 10 anni il costo delle case è aumentato del cento per cento – spiega Laura Mariani, responsabile delle Politiche Ahitative della Cgil – si capisce come per un’enorme fetta della popolazione non solo l’acquisto, ma anche l’affitto, siano diventati una sfida impossibile»,

Con l’aggravante che per gli italiani la casa è famiglia, cultura, radici, legame antropologico con le origini. Per questo la “generazione rent” nel nostro paese rischia di pagare un prezzo più alto che altrove. «Sia per un affitto che per stipulare un mutuo si chiedono garanzie ormai impossibili per oltre il 60% della popolazione, in particolare i giovani, che hanno redditi incerti e lavori precari. Il mondo è cambiato – afferma Laura Mariani – ma sia i proprietari degli appartamenti che gli istituti di credito si comportano come se fossimo ancora nell’Italia del posto fisso… Per uscire da questa morsa, che costringe i giovani a restare in casa ben oltre l’età adulta o fa precipitare le famiglie sotto la soglia di povertà perché strozzate dai canoni di locazione, si deve rilanciare l’edilizia sociale, quella delle cooperative, dei prezzi equi. Ma anche per le case popolari si è passati dai 35mila alloggi del 1985 ai 2000 di oggi, mentre le domande degli aventi diritto sono oltre 600mila».

E se è vero che i ragazzi italiani sono un pò più familisti dei loro coetanei nordeuropei, è vero anche che l’83% dei giovani che vivono in famiglia vorrebbe andarsene al più presto. Perché? Desiderio di indipendenza economica, voglia di sposarsi o convivere, spinta al misurarsi da soli con la vita. «Ma la rigidità del mercato immobiliare – aggiunge il demografo Alessandro Rosina, che al tema del “blocco” dei giovani ha dedicato più di uno studio – fa sì che nel nostro paese anche la “generazione rent”, che potrebbe trovare lavoro muovendosi, spostandosi, accettando incarichi e contratti lontano da casa, non può cogliere queste occasioni perché i salari sono troppo bassi rispetto agli affitti». Si calcola infatti che per poter affrontare un canone da 1000 euro al mese, se ne dovrebbero guadagnare 2500 per non finire sul limite dell’indigenza. «Per noi – dice ancora Rosina – entrare nell’ era in cui la casa non è per sempre è davvero uno strappo culturale, a cui trentenni non sono preparati. Sono figli di una tradizione familiare dove fino a 15 anni fa il percorso preordinato prevedeva lavoro sicuro, matrimonio e casa di proprietà, magari con diversi decenni di mutuo. Caduta però la rete di protezione di nonni e genitori, e senza un welfare pubblico di supporto, i giovani adulti si sentono in uno stato di fragilità che li porta a posticipare tutto: convivenze, figli, l’età adulta insomma».

Addio al mattone dunque? A giudicare dalla nuova corsa selvaggia all’edificazione che in pochi anni ha stravolto molte periferie urbane, sembra di no. Manon saranno certo quei 15 milioni di persone con mille euro al mese di stipendio, a potersi permettere i nuovi condomini chiavi in mano degli hinterland metropolitani. Eppure, aggiunge il sociologo Vanni Codeluppi, dentro questa “generazione reni” ci sono frammenti e fermenti di cambiamento. «E’vero, l’impoverimento della classe media ha generato per i ragazzi un modo di vita assai meno sicuro di quello dei loro genitori. Ma le soluzioni – ipotizza Codeluppi – sono in sintonia con l’idea di flessibilità e nomadismo che è propria di un mondo giovanile che con l’incertezza sa di dover convivere. Spartire un affitto, coabitare, vuol dire mescolare esperienze, non essere chiusi, in fondo è la stessa globalizzazione della Rete».

In effetti in tutto il Nord Europa come negli Stati Uniti, il cohousing e una realtà consolidata, un modo di fare famiglia tra le categorie più diverse, gli anziani, le mamme sole, nuclei familiari che si aiutano tra di loro. E diverse “comunità abitative” sono nate a Milano, in Piemonte, in Emilia Romagna, sia come condivisione affitti, che come veri e propri gruppi d’acquisto di case-villaggio. Mentre sono attivissimi i siti che propongono agli studenti e ai giovani lavoratori appartamenti in cui abitare in più persone, piccole tribù che si incontrano sul web. Basta scorrere “Easystanza” o “Coinquilini.it”, dove sul modello del francese “Colocation” (130 mila richieste al giorno), o il britannico “Easyroommate” (due milioni e 700mila giovani iscritti), migliaia di studenti hanno trovato casa, scegliendo però i coinquilini attraverso dettagliate schede, dove si precisa, anche, l’orientamento sessuale.

«La famiglia d’origine – conclude Codeluppi – è un porto sicuro, ma poi bisogna andare via, spiccare il volo. Ë troppo importante per la formazione di un giovane, ed è davvero punitiva questa resistenza del mercato che blocca il desiderio di autonomia. Ê però vero che in Italia c’è bisogno di un salto culturale, spesso sono i genitori stessi a non spingere i ragazzi fuori. Ma la famiglia nido è un modello in crisi, e non soltanto per fattori economici, a giudicare dal numero delle separazioni e dei divorzi: in realtà, come affermano alcune teorie, le società occidentali avanzate si stanno tribalizzando, nel senso di una vita a gruppi, dove ciò che conta sono i legami tra soggetti, tra individui, non per forza uniti dai legami di sangue».

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Per sempre in affitto – tutti i trucchi per cavarsela senza papà’ di Franco La Cecla

Articolo pubblicato su La Repubblica del 01/0620/11

Ana Bacalhao è una simpatica pienotta cantante portoghese di Fado, con una bellissima voce. Da quando con il suo complesso che si chiama Deolinda ha Intonato tre mesi fa una canzone che parla della condizione giovanile è diventata la bandiera di tutte le manifestazioni del precariato portoghese. La canzone si chiana “Que parva que eu sou”, “Che stupida che sono”, e dice “io faccio parte della generazione della “Casa des pais”, della generazione che vive a casa con i genitori, “vorrei avere un marito, dei figli e invece pago le rate della utilitaria e mi trovo a pensare di essere una stupida ch e per fare la schiava ha dovuto studiare”.

La magnificenza della canzone è la sua mitezza melodica. E il fatto che in essa si sono identificati i giovani portoghesi che al pari dei greci, dei francesi e degli italiani si sono accorti di essere una minoranza senza diritti, quella minoranza su cui banche e governi stanno scaricando la crisi.

La differenza con l’Italia è che da noi i giovani non sono ancora scoppiati come dovrebbero, sono ancora illusi da un potere che promette loro cali center e co-co-co. Il sogno di un appartamento proprio, da comprare, ma anche solo da affittare è lontanissimo. Vivono, dicono le statistiche, fino a 35 anni nella “casa di papà”, con i genitori che “considerano la cosa normale”. Tanto normale non è ovviamente pur sapendo che il modello mediterraneo della famiglia allargata prevede una relazione costante, edipica, cianica. Però manca davvero la possibilità di pensare ad un futuro diverso. Con la disoccupazione giovanile più alta d’Europa l’Italia è un paese che sfrutta e delude i giovani, li frustra e mostra loro un modello dove per fare un lavoro di responsabilità occorre farsi corrompere dai vecchi al potere e assumere le loro logiche. Ci si augura che i giovani in Italia si rendano conto al pari dei loro coetanei europei di essere davvero una “classe” di emarginati, di drop-out, una classe che rappresenta quel precariato intellettuale che ha studiato inutilmente e che deve invece formare un “knowledge liberation front”, un fronte della liberazione della conoscenza, – così si chiamano in tutta Europa i movimenti che rivendicano ai giovani un posto nella società. Ovviamente nulla sarà regalato inutile aspettare un piano di edilizia popolare peri giovani, mentre invece ci sono strumenti di lotta e di rete che somigliano a quello che avviene in twitter e facebook. La mia amica Serena ventiseienne paga l’affitto della casa in cui vive a Roma avendo trasformato il suo appartamento in bed e breakfast, una soluzione geniale per essere autonoma e per non dover vivere alle spalle dei genitori o di un uomo. Ma ci sono altre ingegnosità, dal co-housing, alle reti di solidarietà tra amici.

La città deve essere una risorsa per i giovani, deve essere un luogo utilizzabile senza dover spendere buona parte dei propri magri proventi per un letto e senza dover ricadere nel modello figliol prodigo che torna comunque dopo ogni delusione di lavoro e di studio nell’alveo familiare. Anche perché i giovani italiani sono vittime soprattutto dei loro genitori che hanno creato un mondo fin troppo statico, realista, nostalgico -a sinistra nel migliore dei casi – e incapace di rinnovarsi.