Il progetto della Regione Toscana per l’autonomia dei giovani

Secondo un sondaggio di Demopolis in Italia sono ben il 65% i giovani under 35 che hanno lavorato gratuitamente almeno una volta.

Qui di seguito l’inchiesta, pubblicata da “L’Espresso” il 5 agosto, che racconta questa difficile condizione che colpisce molti giovani nel nostro paese.

 Stage, praticanti e crowdsourcing: mezzo milione di italiani non viene pagato per quello che fa. E protesta   di Roberta Carlini
L’Espresso 5 agosto
–  scarica articolo pdf, vai all’articolo edizione espresso.it

C’è il grafico che ironizza sul suo mestiere: «Faccio gratis designer». L’attrice che ha coniato una nuova formula, «sto nel racket del lavoro bianco: mi pagano i contributi, ma non lo stipendio». Il praticante avvocato che difende i diritti degli altri e trascura i suoi. La freelance che lancia un avviso ai naviganti: basta volontariato, d’ora in poi non lavoro più senza paga. Gli stagisti d’ogni tipo ed età: mezzo milione come minimo, nel privato e nel pubblico, per la maggior parte non retribuiti e neanche rimborsati. E il mondo nuovo del Web, con il crowdsourcing trasformato da officina creativa di massa a reclutamento di opera a costo zero. Il 65 per cento dei giovani con meno di 35 anni ha lavorato almeno una volta senza essere retribuito, dimostra un sondaggio di Demopolis realizzato per “l’Espresso”. Tutti lavoratori e lavoratrici, in gran parte giovani, ben qualificati, spesso alle prese con lavori interessanti, creativi, belli. Ma non pagati. Gratis. Non per scelta, ma per ricatto o necessità. Un mondo sommerso, che può esplodere da un momento all’altro.

In prima fila, nell’universo del lavoro gratis, ci sono loro: gli stagisti, esercito che si è stratificato negli anni e con la crisi si è cronicizzato. «Lo stage non è più il primo passo di un percorso lineare, in crescendo: si può andare avanti, ma si può anche passare da uno stage all’altro senza migliorare in niente o addirittura tornare indietro, da un lavoretto retribuito a un nuovo stage», racconta Eleonora Voltolina, fondatrice di un sito molto popolare nel mondo dei forzati della stage (repubblicadeglistagisti.it) e autrice dell’omonimo libro (Laterza). Da porta d’ingresso nel mercato del lavoro, ormai da tempo lo stage è diventata una condizione esistenziale: non retribuita, nella maggior parte dei casi. «Secondo un sondaggio tra i nostri utenti, il 52 per cento degli stagisti non prende un euro, e un altro 15 ha un rimborso spese inferiore ai 250 euro al mese».

Non stiamo parlando di un gruppetto di poche persone: secondo i dati Unioncamere, nel settore privato gli stagisti sono 322 mila. E nel pubblico? «Abbiamo chiesto al ministro Brunetta di dare le cifre, non ci ha risposto», dice Voltolina. La stima, non ufficiale, è sui 200 mila: e siamo già sopra il mezzo milione. Ai quali poi vanno aggiunti almeno 200 mila aspiranti professionisti (avvocati, commercialisti, notai) costretti a fare la pratica per poi accedere con un esame di Stato ai mitici ordini professionali. E la loro pratica, di norma, è a prezzo zero. Anche laddove i codici deontologici prescrivono che il praticante vada pagato, dopo un po’ di mesi di addestramento. Una regola inapplicata dalla maggior parte degli studi italiani, e ignorata persino dallo Stato, che da un pezzo ricorre al lavoro gratis dei giovani avvocati: succede nell’Avvocatura di Stato e succede persino all’Inps. Non che siano i soli. Ci sono stagisti che mandano avanti i tribunali in crisi di organico e quelli che tengono aperte le biblioteche delle università. Lo stagismo dilaga nei Comuni come nei ministeri, in tutto lo Stato e il parastato. E fa da biglietto da visita dell’Italia anche nelle ambasciate. Sono stati 1.800 l’anno scorso e 580 quest’anno i neolaureati che hanno vinto i posti messi in palio dal ministero degli Esteri per fare stage presso le ambasciate. Una bella opportunità, per chi studia nel campo della politica e diplomazia. Ma a caro prezzo: nessun rimborso spese, neanche se ti mandano a Bangkok o in Australia. «Io sono stata fortunata, ho avuto come destinazione Lisbona: il viaggio non costa molto e tutto qui è abbastanza economico per effetto della crisi», racconta Noemi De Lorenzo, 24 anni, appena laureata in Scienze internazionali e diplomatiche all’università di Trieste. Viaggio, affitto, cibo («devo dire che i funzionari dell’ambasciata spesso mi offrono il pranzo…»), tutto per tre mesi prorogabili di uno: «Di più non potrei, però finora è stata una esperienza utile, so che non sempre è così, a volte ti tengono solo a fare le fotocopie», racconta Noemi, che si tiene in rete con i suoi colleghi che in tutto il mondo stanno apprendendo l’abc della diplomazia e insieme i rudimenti del lavoro gratuito. Che prosegue spesso anche quando il pretesto della formazione non c’è più, incanalandosi su mille altre strade.

«Diciamo no al volontariato: perché non si deve mai lavorare gratis». A un certo punto Silvia Bencivelli, giornalista scientifica free lance, non ce l’ha fatta più e si è sfogata sul suo blog (http://silviabencivelli.it/): basta al volontariato, basta alle telefonate di chi ti chiede di contribuire a un libro, moderare una tavola rotonda, scrivere, intervenire a un convegno, dimenticandosi sempre di citare l’argomento “soldi”. Oppure promettendo, al massimo, un rimborso del biglietto del treno: magari per un fine settimana, magari per andare in un posto bello. Basta. «No. Per me, perché anche se è vero che il mio lavoro assomiglia a un hobby, e a volte si tratta di fare cose divertenti che farei anche per niente, non posso svendere quel che faccio. E poi no, per tutti gli altri. Perché chi lavora gratis rovina il mercato». Uno sfogo cliccatissimo, che è stato rilanciato e commentato in Rete alla grande. Segno che Bencivelli ha messo il dito in una piaga diffusa, che colpisce soprattutto il lavoro intellettuale e creativo: «Quel che tutti pensano è: siccome fai un bel lavoro, puoi anche farlo gratis», riassume Silvia. Che aggiunge: «Per carità, il dono, l’attività volontaria, ci possono sempre stare, per gli amici o per una causa. Ma qui sta diventando un sistema, un modo per svalutare il lavoro. Me lo dice sempre mio padre: non è che siccome fai un lavoro bello, ti possono pagare in bellezza». Se il “lavoro bello” è il primo dei ricatti, quello che viene subito dopo è il mito della visibilità: «Non ti pago, ma così fai vedere il tuo lavoro, la tua firma, la tua faccia». Ne soffrono professionisti affermati e ancor più giovani che vogliono emergere, ragazzi pagati 3 curo ad articolo per vedere la propria firma su quotidiani blasonati. Figuriamoci se non ne soffre il mondo dello spettacolo. «Da noi non c’è solo il lavoro nero, c’è di peggio: il lavoro bianco», dice Manuela Cherubini, regista e attrice. Che racconta, seduta a un tavolino di fronte al teatro Valle occupato, cos’è questo trucco del lavoro bianco: «Ti pagano i contributi, ma non lo stipendio». Questo per colpa dei meccanismi perversi del finanziamento pubblico alle compagnie: commisurati appunto a quanti cedolini hanno, quanti contributi pagano. E allora, «firmi la busta paga, ma la paga non arriva. Poi magari arrivano l’anno dopo le tasse da pagare sulla paga che non hai avuto». Il tavolino si affolla, e attrici, attori, scenografi, registi, raccontano tutti episodi di “lavoro bianco”. Che prima veniva accettato perché, cedolino dopo cedolino, magari arrivava il diritto al trattamento di disoccupazione. Adesso questa possibilità non c’è più e chi lavora gratis lo fa solo per esserci. «Perché ci sono tanti attori a spasso che pur di sentirsi vivi accettano». Poi c’è il lavoro gratis venduto come grande opportunità, il privilegio di recitare per cinque minuti accanto a un grande della scena. O il trucco della formazione, nel dilagare dei “laboratori”. Fino all’organizzazione di festival ed eventi con scambio di compagnie, senza remunerazione ma con garanzia di poter riempire così i rispettivi cartelloni. «Siamo noi per primi a dover cambiare mentalità, a dover dire no, se continuiamo a essere disposti a tutto pur di andare in scena non saremo mai considerati, a tutti gli effetti, lavoratori ». «Può il governo federale americano chiederci di lavorare gratis?», stanno chiedendo a gran voce un migliaio di graphic designer americani. Sono protagonisti di una rivolta contro il bando appena lanciato dal dipartimento agli interni a stelle e strisce, che ha messo in crowdsourcing il rifacimento del logo (http://www.change. org/petitions/u s-department-of-theinterior-stop-the-us-department-of-interior-from-crowdsourcing-a-logo). Il vecchio bisonte quasi centenario non va più bene, così il ministero si è rivolto alla Rete: mandateci una proposta, sceglieremo la più bella. Sul mercato professionale, quel lavoro è valutato dai 20 mila ai 50 mila dollari: con il crowdsourcing di Stato, protestano i designer americani in rivolta, chi vince ne guadagna appena 1.000, tutti gli altri hanno lavorato gratis. Il fenomeno è mondiale e interessa designer, grafici, copyrighter e altri professionisti che hanno visto rapidamente il Web trasformarsi da delizia in croce. «Il crowdsourcing dilaga, è un modo per raccogliere risorse a basso costo, o del tutto gratis», dice Dario Banfi, giornalista, copywriter e consulente milanese, autore con Sergio Bologna del libro “Vita da free lance” (da poco uscito per Feltrinelli), nel quale dedica ampio spazio al problema, in un capitolo che si apre con la seguente domanda: “E’ il lavoro gratuito, meglio di nessun lavoro?”. Banfi pensa di no, ovviamente, e mostra una mail da lui stesso ricevuta qualche giorno fa: «Caro copy, eccoci a proporti una nuova ricerca nome …». Si trattava, in sostanza, di inventare il nome per un nuovo prodotto assicurativo per automobilisti. Premio: mille euro per il nome vincente, zero compensi per tutti gli altri. Anche in Italia sono fiorenti agenzie che fanno brokeraggio tra i clienti e i creativi, cercando sulla Rete le idee migliori a prezzi ridicoli. «Negli Stati Uniti, dove i freelance si sono coalizzati, comincia una reazione molto forte contro queste pratiche. Così come è partita la rivolta dei giornalisti-blogger che hanno scritto gratis per l’Huffington Post e adesso hanno avviato una class action per avere una parte del bottino ricavato da Arianna Huffinghton dalla vendita». La class action dei blogger di Arianna porta argomenti a quanti sostengono che il magico mondo “gratis” del Web è il regno dello sfruttamento di massa, come sostiene nel suo libro “Felici e sfruttati” (Egea) Carlo Formenti; e alimenta il dibattito, molto fitto nella blogosfera, sui confini tra spontaneità e gratuità della Rete e un business economico che si fa sempre più aggressivo ma non distribuisce i suoi “jackpot” a chi ha donato idee e scritti all’impresa nascente che poi è diventata di successo. Le nuove frontiere del crowdsourcing vanno a peggiorare una situazione già poco rosea, per un mondo di professionisti non sempre riconosciuti come tali, soprattutto in Italia. «Tra noi circola una battuta, autoironica: non voglio fare il gratis designer », racconta Mario Rullo, graphic designer, fondatore di una piccola agenzia romana. «Faccio questo lavoro da vent’anni e ho vissuto tutti i cambiamenti tecnologici, la rivoluzione che ha reso accessibili alcune operazioni a tutti». Una bella cosa, ovviamente: però diventa preoccupante «se il mercato poi pensa che alcuni servizi si possono non pagare: le fotografie, il design, la scrittura. Colpa del fatto che in molte imprese non ci sono le competenze per riconoscere un lavoro professionale, ma anche della voglia di pagare poco, risparmiare. E così il crowdsourcing diventa una mistificazione, non è una specie di concorso per giovani o per emergenti – cosa in sé molto bella e utile – ma vuol dire una sola cosa: non voglio spendere». E quindi non ti pago.